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Flessibilità e disoccupazione: abbiamo davvero bisogno del Jobs Act?

La nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O meglio, quel che rimane della nostra Repubblica, almeno sulla Carta, dovrebbe essere imperniata su di esso. Benché infatti il lavoro sia posto come cardine fondante della nostra società, i dati sulla disoccupazione da un lato e l’operato degli ultimi governi dall’altro sembrano suggerire una situazione decisamente diversa. Come tutti sappiamo la Costituzione prevede anche altri diritti quali l’uguaglianza, la libertà e il diritto alla persona, ma il fatto che il lavoro sia menzionato sia all’art.1 che all’art.4 sembrerebbe porlo in una posizione decisamente centrale e nevralgica. Tuttavia le contingenze storiche e un pizzico di colpi d’ascia umani hanno fatto sì che si parli con totale disinvoltura del “mercato del lavoro”, fattore che tende a porlo al di fuori dell’alveo logico dei diritti, mentre per fortuna nessuno ha ancora mai avanzato un modello di domanda e offerta per la libertà di parola. Ad ogni modo ai fini di questa rassegna ci adegueremo ai mala tempora e offriremo alcuni spunti di dibattito a partire da autorevoli studi empirici sul mercato del lavoro.

Partiamo da uno dei leitmotiv più frequenti e con cui si tende ad approcciare ogni questione economica da oltre dieci anni: maggiore concorrenza fa beni ai mercati tout court e tale ricetta sarebbe valida dal mercato del cotone a quello del petrolio, da quello delle automobili a quello del lavoro. Per quanto concerne il settore lavorativo, la maggiore concorrenzialità e l’allocazione ottimale delle risorse (i lavoratori) si raggiunge tramite la ben nota flessibilità. Questa di fatto consiste in contratti di lavoro a scadenza medio-breve, azzeramento del conflitto di classe e degli ammortizzatori sociali. Un mercato di tal genere, nell’ottica economica dominante, dovrebbe assicurare un tasso di disoccupazione e un livello del Pil pari ai loro valori strutturali (n.d.r l’economia neoclassica individua un livello “strutturale” o “naturale” di disoccupazione e Pil diverso per ciascuno Stato), uno standard retributivo dignitoso e un’inflazione costante. La ratio della Legge Biagi, della cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e dei continui tentativi di decostruire la cultura operaia novecentesca si rifanno in ultima istanza proprio a questo principio economico.

Ultimo provvedimento in ordine di tempo ispirato al vecchio mantra liberista è il Jobs Act renziano. La peculiarità del provvedimento, come sottolinea Marcello de Cecco su Repubblica.it [1], è quella di allontanarsi dalla prospettiva di un mercato del lavoro unico in favore di una estrema diversificazione delle situazioni. In linea del tutto teorica (leggasi pure “ingenua”), il Jobs Act mira a porsi come una cornice generale delle variegate situazioni lavorative diverse che, in quanto tali, meritano di essere considerate nella loro unicità. In sostanza si lascerà più libertà alla contrattazione microeconomica ed individuale abbandonando la prospettiva macroeconomica del mondo del lavoro: non più una regolamentazione unica tra istituzioni, lavoratori e privati, ma una “serie di congerie di interventi settoriali”. Un atto per tutti i lavori dunque, ma di fatto esso sortirà come unico effetto quello di sottrarre ulteriore potere alla classe lavoratrice e acuirà la deflazione salariale che sta martoriando le famiglie italiane. La sostituzione della Cig con un reddito di disoccupazione ed il congelamento triennale dell’art.18 per i neoassunti faranno da contorno al tripudio liberista. In questa sede tralasciamo oltretutto la penosa questione del reddito di disoccupazione accompagnato da corsi di formazione professionalizzanti per chi non ha lavoro: come mai non si dirottano le risorse necessarie per la realizzazione del piano verso la scuola superiore e liceale? [2].

La situazione si aggrava ulteriormente quando ci si rende conto che il binomio tra flessibilità e occupazione, noto anche con l’astruso neologismo “flessicurezza” [3], è stato cassato già da molto tempo dagli stessi pensatori liberisti. Emiliano Brancaccio, professore eterodosso di Economia Politica presso l’università del Sannio, riporta in una sua recente pubblicazione [4] un passo decisamente illuminante sulla questione. Il Prof. Brancaccio riporta i dati di tredici studi empirici sull’esistenza di una correlazione empirica tra flessibilità e tasso di disoccupazione, ma solo una di esse – a cura del bocconiano Tito Boeri – ha riscontrato un legame diretto tra le due variabili. Persino Olivier Blanchard, professore del Mit di Boston, chief economist del Fondo Monetario Internazionali nonché autore del libro di testo universitario di Macroeconomia più usato in Occidente, è arrivato ad ammettere che “le differenze nei regimi di protezione dell’impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi” [5]. Il lettore che avrà lo zelo di leggere la nota del punto 5, scoprirà che Blanchard ha ceduto a tale evidenza già nel 2006. Otto anni sono di certo insignificanti rispetto ai temi geologici, ma sono più che sufficienti per un policy maker per rendersi conto dell’arretratezza scientifica delle sue politiche. Se ciò non accade, dal momento che non si sta parlando di dogmi religiosi né di assiomi apriorisitici, o costui è in mala fede o non è all’altezza di prendere decisioni di politica economica.

Il dibattito su questo punto cruciale è già vivo da molto tempo ed è persino arrivato a monopolizzare le prime serate dei principali canali in tv. Il problema è che si tratta di un dibattito per lo più approssimativo da un punto di vista scientifico e praticamente sempre monolaterale. L’economia non è un cristallo monolitico immobile e con un po’ di curiosità non è affatto difficile avvicinarsi a soluzioni totalmente diverse da quella del Jobs Act, ma non per questo meno accreditate. Pensiamo alla giornata lavorativa di quattro ore [6] avanzata da Serge Latouche, professore di Economia Politica a Parigi, o ai piani di Job Guarantee [7] suggeriti dalla Modern Money Theory.

Chissà che così facendo, posto che pare proprio non sussistere alcuna relazione tra flessibilità lavorativa e tasso di occupazione, non si scopra l’ovvia constatazione che c’è una correlazione immensamente stretta tra flessibilità mentale e soluzione dei problemi.

[1] http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2014/02/24/news/non_basta_un_act_per_creare_jobs-79477013/

[2] http://www.oltremedianews.com/14/post/2013/12/il-job-act-che-fa-tremare-il-pd.html

[3] http://it.wikipedia.org/wiki/Flexicurity

[4] E. Brancaccio, “Anti-Blanchard”. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia, Franco Angeli, Milano 2012

[5] O. Blanchard, “European unemployment: the evolution of facts and ideas”, Economic policy 2006

[6] http://comune-info.net/2012/04/decrescita-e-diritto-del-lavoro/

[7] http://economiapericittadini.it/mmt-in-pillole/321-job-guarantee

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