Nelle sue concioni di Palermo, di Bari e di Napoli Beppe Grillo, convinto d’essere l’unico in Italia ad impersonificare la rappresentanza dell’odio popolare contro le istituzioni, è giunto a sfidare il giovane Matteo Renzi, che anche lui, quanto a facondia, non scherza, minacciando di rottamare nel voto del 25 maggio governo, partito democratico, diciassettesima legislatura. Di più, il Masaniello genovese si è abbandonato ad una filippica contro l’universo mondo, non salvando dalla demolizione nessuno, eccetto i giovani della sua setta speciale su posizioni dichiaratamente paranaziste.
In campagna elettorale, è notorio, si usano fin troppe parole in libertà, alle quali i primi a non credere sono proprio coloro che le pronunciano. Però, in testa a Grillo, che è un teatrante ma non un fesso, frulla l’idea che davvero il suo movimento cinque stelle abbia il vento in poppa. I sondaggi che circolano in quella congrega di tipo satanista – un mese fa data in pesante discesa – sono ora in forte recupero: paiono giunti ai livelli del febbraio 2013 (che avevano portato il grillismo a imporsi, ma isolato, come prima forza elettorale).
Dalla previsione, sempre secondo la voce cantante del M5S, che nella sola Sicilia, Grillo potrebbe superare il 35 per cento dei consensi, questo strano leader in condominio col guru Gianroberto Casaleggio azzarda di potere, in meno di venti giorni, di aggiudicarsi il 51 per cento dei voti italiani, così spazzando via d’un colpo tutti gli altri partiti. Come egli stesso aveva auspicato, nel gennaio 2005, in una intervista al Corriere della Sera, opinando l’inevitabilità di «una nuova gestione della democrazia. I politici non serviranno più». E chi li avrebbe sostituiti? I seguaci che, sul suo neonato sito, ne seguivano propositi, spropositi, giudizi a ruota libera, contumelie. Da quel momento la politica italiana s’arricchì – si fa per dire – dell’anatema dell’insulto diventato di colpo il segno divinatorio dell’ennesimo partito-non partito.
A ben vedere, il movimento dell’invettiva come principio, parola e obiettivo d’ogni fede terrena si sviluppò sull’onda favorevole di una comunicazione giornalistico-libraria imperniata sul messale de La Casta: vero brodo di coltura di un antiparlamentarismo che coglieva il peggio del peggio della democrazia parlamentare; lo catalogava, lo presentava come irrimediabile e, inevitabilmente, arringava la folla a reagire con l’arma dell’astensionismo o, meglio, con quella del voto contro. Grillo colse bene quel sentimento destruens; lo fece proprio; prese a raccontarlo in bella forma, con una pagina pubblicitaria, sull’International Herald Tribune; illustrò il progetto al presidente del consiglio dell’epoca Romano Prodi; allestì un libro composto di lettere di protesta sotto il titolo Schiavi moderni (che raccolse il plauso anche del capo dello Stato Giorgio Napolitano) e, un anno più tardi (8 settembre 2007), nella Piazza Maggiore di Bologna, crocicchio storico dei protestatari di tutto il mondo nel Novecento, diede vita al primo V-Day, in contemporanea con altre piazze collegate in varie regioni. Da comico, si trasformò in teatrante politico, demagogo, populista, anti-tutto.
Una settimana dopo Grillo si esibiva alla Festa dell’Unità di Milano, raccogliendo crasse risate ma provocando lo scompiglio nel corpaccione della sinistra di governo e di lotta, avviando di lì la strategia della rottamazione, in seguito fatta propria da Renzi. Il che spiega come il maestro, superato dal presunto allievo, ora sia costretto a ricorrere all’iperbole della maggioranza assoluta, l’unica che non gli stia stretta e che gli consentirebbe di dare corpo ad un nuovo regime: non democratico, bensì settario, imprevedibile, da non pochi ritenuto somigliante al primo populismo di Adolf Hitler.