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Ha ancora senso parlare del Sessantotto?

Sì, parlare del Sessantotto ha ancora senso. Pur con tutti i rischi del caso. Il Sessantotto è stato un confronto tra mondi diversi, ma non necessariamente distanti, tra persone dai carismi unici come unica era la verità che esse ricercavano. Un confronto diventato storia, i cui riflessi sono oggi ancora visibili in quanto ne è scaturito. Per questo degno di essere criticato o ammirato. Di certo non ignorato. Certo lo scontro ideologico è dietro l’angolo, e la difficoltà di ragionarvi in maniera non solo obiettiva, ma quantomeno serena, può risultare esercizio da equilibristi.

Vi sono coloro che quasi vorrebbero cancellarne l’esistenza, con un atto di rimozione storica d’alta scuola, in grado di rimuovere così anche sentimenti, sogni, aspirazioni di chi vi ha partecipato rimanendone deluso o di chi non vi ha preso parte subendone le conseguenze; quelli che lo esaltano come il momento catartico del Novecento che ha finalmente imposto la cultura della libertà sulla verità, dei diritti sui doveri e le responsabilità; quelli che lo vedono, assieme al Concilio Vaticano II, come il punto di non ritorno di un mondo finalmente secolarizzato e di una società egualitaria senza uguaglianza; quelli che lo considerano la fonte di ogni speranza per la generazione che l’ha vissuto direttamente, ma che è rimasta schiacciata tra la lotta contro il dominio dei “padroni” e il Vietnam da una parte, e la comodità di una vita borghese dall’altra; quelli che lo soffrono come la grande occasione mancata per quanti vestivano l’eskimo e si sono ritrovati dirigenti d’azienda, politici o direttori di giornali. E la lista potrebbe continuare, tanto quel periodo ha condizionato l’esistenza delle persone che vi hanno aderito e dei figli che esse hanno generato.

Il rischio che si è accollato John Corago – scrittore che cela il nome di un illustre docente universitario italiano e, non a caso, studioso di storia delle dottrine politiche – con il libro “Brussel, Bruxelles, 1968” (Cantagalli, pagine 406, euro 20), non è quindi di poco conto, ma andava corso perché ogni opera che si rispetti non può nascere nella bambagia. E l’ostacolo che l’autore prova ad aggirare con la finzione, firmando un romanzo – un romanzo storico – anziché un saggio, viene invece saltato con slancio generoso e intelligenza fine.

Perché, forse, al di là delle filosofie e dei tecnicismi da cattedratici, per comprendere un’epoca non vi è niente di meglio che gustare la “fiction”: nel caso di specie, il confronto tra due persone, distinte per vissuto, studi, maturità, ma accomunate dall’unico legame capace di riverberarsi al di là delle gioie e dei dolori, delle vittorie e delle sconfitte, delle sintonie e delle incomprensioni: quello del sangue.

UN RACCONTO A TRE FACCE

L’abilità di Corago è quella di mettere in scena un racconto a tre facce che, ovviamente, tendono a confondersi e ad assorbirsi vicendevolmente: la prima, il cuore del libro, è la partita intellettuale ed esistenziale tra un padre e un figlio, ciascuno dei quali ritrova – come nella migliore casistica psicologica – la parte mancante di sé, quegli spunti che vorrebbe avere ma non ha, racchiuso nell’unicità divina del proprio essere; la seconda presenta lo sfondo sociale e politico nel quale si muovono i personaggi (poco importa il loro numero, conta invece il loro appartenere, ciascuno, o al mondo del padre o a quello del figlio); la terza pennella le trame ideologiche attorno alle quali la Storia costruì il proprio canovaccio dalla California a tutta l’Europa, fece rilevare i sogni ed esplodere le sue contraddizioni: lo scontro tra la ragione della fede e la fede nella ragione.

Perchè “Brussel, Bruxelles, 1968” è un romanzo sull’ideologia che ha caratterizzato lo spaccato di fine anni sessanta-inizio settanta, ma anche – e soprattutto – sulla vita e sul suo senso, ovvero su Dio: sulla ricerca di Dio, il Dio incarnatosi in Gesù detto il Cristo, sulla sua presunta assenza, sulla sua insostituibile presenza, e sulla Verità come metro delle azioni e fine ultimo dell’esistenza: “del resto – dice a un certo punto Karin, l’anima femminile della storia – solo chi crede è chiamato a far nuove tutte le cose”.

Così il giovane Nico si trasferisce a Bruges per studiare al College d’Europe e raggiungere Carmelo, il papà, impiegato come minatore, assieme a molti conterranei della Sicilia. Lo scontro-incontro tra due mentalità non potrebbe essere più evidente: Carmelo, cattolico e comunista, abituato a pensare la lotta di classe in funzione del miglioramento delle condizioni di vita degli operai, ma senza rompere con i padroni, perché gli uni hanno bisogno degli altri, per realizzare un mondo del lavoro equo; Nico, in cerca di una fede, che crede di trovare nella razionalità della conoscenza la risposta a ogni domanda, e nella radicalità dell’ideologia il conforto e la base per una rivoluzione “giusta”, e finisce invece per accarezzare il dubbio come metodo e comprendere che la ragionevolezza non può essere soffocata dal razionalismo. E poi c’è il terzo incomodo, Karin, fidanzata di Nico, la “reazionaria”, portata per natura e sensibilità all’equilibrio nella ricerca di un mondo nuovo, perché, dice, “non basta che sia diverso, potrebbe essere peggiore” e “sono la lentezza e la continuità che cambiano veramente” le cose. Il tutto giocato all’interno dello scenario delle prime contestazioni, dei cortei anarchici, delle riunioni-fiume nei collettivi dove si era fieramente convinti che “noi rappresentiamo l’avanguardia e l’autonomia”, e nel tessuto delle relazioni umane che vanno sviluppandosi: tra minatori e studenti; tra compagni di lotta e di lavoro, per lo più emigranti del meridione italiano trovatisi per necessità a vivere in Belgio, a pochi chilometri dalla “capitale” di quella Unione Europea, Bruxelles, oggi messa da più parti sotto esame; tra amici e colleghi di studio; tra due amanti che nella passione per la politica trovano il senso dello stare insieme.

 

E’ un romanzo, questo di Corago – che già aveva dato prova delle proprie attitudini letterarie con il precedente “Dar vita a una vita” – che, infine, anzichè travolgere, coinvolge con la profondità dello studio introspettivo dei personaggi. Il lettore non viene investito dall’incalzare ritmico degli eventi narrati, ma assorbito e poi cullato dall’abisso che apre la storia (e la Storia). Per ritrovarsi assieme a Nico, nel viaggio di ritorno verso la casa natìa, in estasi e contemplazione di fronte all’affresco di un Cristo giudicante, con il dubbio, e la speranza, che ne sia valsa almeno la pena. Perché, dice il protagonista, “al giudizio non si può sfuggire. Sarà quello della storia, degli uomini o di Dio. Speriamo che sia, comunque, clemente”. Nessun “happy ending”, ma una porta spalancata sulla strada della vita, che è poi l’infinito. Con i suoi rischi e le sue opportunità.

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