Ieri ero al parco. Di fronte a me, un’orda di bambini di tutte le età e di varie nazionalità. A un tratto, mi accorgo di un bambino piccolo – avrà avuto tre anni – che gioca a palla. Dall’accento della madre, che lo stava chiamando, intuisco che, mamma e bambino, sono brasiliani. Il bambino deve essere nato in Italia, però. Infatti, mentre è lì che gioca a palla, mentre prova a smuoverla con la suola, in nome della scuola cui geneticamente dovrebbe appartenere, incespica malamente e finisce con la faccia per terra dalla parte opposta alla palla su cui è ruzzolato malamente.
La cosa mi ha incupito. Perché ho pensato al fatto che le emigrazioni che rappresentano come in un accumulatore chimico, l’effetto prodotto da un diverso potenziale politico ed economico che costringe gli “ioni” a spostarsi, mai nome è foneticamente più azzeccato, finiscono per distruggere più che arricchire le identità dei popoli. Un bambino brasiliano, magari non sarà mai a suo agio con le disequazioni, ma, specie se sulla spiaggia infuocata di Ipanema, sarà sempre a suo agio con un palla tra i piedi. E invece, obbligato in quel parco senza orizzonte, né tramonto, senza Gilberto Gil a fargli da sottofondo, è finito a terra come un Chiellini qualunque con i piedi più come dei ferri da stiro quelli che deve impugnare la madre, colf da qualche vecchio geometra di Borgo San Paolo, per tirare la carretta dell’ordine mondiale. Tant’é.
I mondiali di calcio di un piccolo brasiliano
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