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Il cammino di pace del Papa in Medio Oriente

Quando nel marzo del 2009 mi recai in delegazione a Yad Vashem per discutere della didascalia su Pio XII, apposta in una sala del Memoriale dell’Olocausto a Gerusalemme, non pensavo che quelle prove di dialogo tra studiosi ed accademici esperti della materia portassero al primo volume congiunto ebraico-cattolico su Papa Pacelli e sul suo ruolo nella Shoah. Né pensavo si potesse giungere alla modifica della predetta didascalia su quel Papa, prima giudicato ambiguo e insensibile di fronte alla tragedia che si stava consumando sotto i suoi occhi.

E invece furono fatti passi avanti insperati, di cui forse risentirà positivamente anche la visita di Papa Francesco a Yad Vashem, nel quadro della sua missione pastorale in Terra Santa.

A volte l’insperato si realizza, e questo è auspicabile valga anche per la costruzione della pace in Medio Oriente. I punti sollevati da Papa Francesco nel corso della sua visita in fondo sono stati tanti inviti: al dialogo, alla fiducia reciproca, alla salvaguardia dei diritti, al soddisfacimento dei bisogni urgenti (pane, casa, lavoro, pace) e, non da ultimo, alla tutela dei diritti religiosi nella loro assoluta integrità.

Questo rinnovato appello al rispetto della libertà religiosa è stato certamente utile nel prevalente contesto musulmano di Bethlem, di Nazareth e di altri Luoghi Santi, dove non di rado si verificano episodi di discriminazione anti-cristiana, e dove la realizzazione della pace dovrebbe passare attraverso l’edificazione di uno Stato palestinese autenticamente laico.

Ma il problema della difesa dei diritti religiosi riguarda anche Israele. O meglio, riguarda quella parte della società israeliana sempre più condizionata dal rafforzamento dell’ala ultra-ortodossa dell’Ebraismo, soprattutto nel cuore di Gerusalemme ovest. Solo per fare un esempio, quartieri che un tempo erano definiti internazionali (residenza di diplomatici e di corrispondenti esteri) ora sono stati interamente acquistati da ebrei ortodossi, con inevitabili riflessi sulla quotidiana “vita laica” e sul tessuto sociale della città.

Per fare un altro esempio, nei quartieri ormai “ortodossizzati” vi sono non di rado scuole cattoliche che ospitano alunni cristiani e musulmani, e la cui vita settimanale è scandita dal rispetto delle festività (con triplici calendari per le ricorrenze ebraiche, musulmane e cristiane); ma queste istituzioni convivono sempre più difficilmente con l’elemento ebraico-ortodosso maggioritario, che vorrebbe per esempio le scuole chiuse di sabato, facendo talvolta pesare queste pretese con azioni di vero e proprio sabotaggio. Ed è altresì molto grave che giovani generazioni delle famiglie ultraortodosse vengano educate, oltre che al sacrosanto rispetto della Torah, anche a tener lontani coetanei cristiani e musulmani: una preoccupante deriva che non di rado  sfocia in un disprezzo ostentato per strada verso chi indossi un saio o una talare.

Questi problemi ovviamente provocano difficoltà alle autorità israeliane, che devono già difendersi dalle critiche dell’opinione pubblica internazionale verso la loro politica in materia di insediamenti, e per i mancati adempimenti richiesti dalle Nazioni Unite in tema di territori occupati.

Papa Francesco si è recato in Terra Santa sicuramente con questi promemoria in agenda, sapendo peraltro che la questione di Gerusalemme è ancora aperta, e che la Santa Sede mantiene la posizione secondo cui la città non è capitale dello Stato israeliano bensì città un regime internazionale, e Luogo Santo per le tre religioni monoteiste. Si tratta di una questione importante, che per esempio ha creato problemi di protocollo, visto che il Papa non può passare da Bethlem a Gerusalemme attraverso i checkpoint del muro di divisione: delimitazione considerata arbitraria ed artificiosa.

E a proposito di questa “barriera di sicurezza” israeliana, ha colpito molto vedere il Papa fermare il corteo dopo il primo incontro con Abu Mazen, e prima di giungere alla Piazza della mangiatoia di Bethlem; ha commosso vederlo scendere e avvicinarsi a quel muro con emozione; toccarlo e restare in meditazione, proprio come fosse davanti a un nuovo Muro del pianto.

Non sappiamo se l’idea del Papa di accogliere nella sua casa in Vaticano le autorità palestinesi e israeliane per discutere di pace (e soprattutto pregare per essa) sia gemmata sul momento, al di fuori dei testi diffusi ai giornalisti; o se, come siamo portati a credere, non si tratti di qualcosa di profondamente meditato. Fatto sta che il Papa sa bene che la questione mediorientale è in grave ristagno, anche perché gli interlocutori che si sono di volta in volta interposti e avvicendati a gestire i negoziati (Stati Uniti, le varie troike, l’Unione Europea ecc.) per svariate ragioni hanno perso in autorevolezza e in carisma agli occhi delle due parti, israeliana e palestinese.

Si tratterà dunque di vedere quali effetti sortiranno le parole di pace di Francesco, all’indomani di questa visita. Ma una cosa è certa: questo Papa è armato di pace e di ecumenismo e sa anche che non basta sentirsi tutti fratelli per costruire la pace. Bisogna rinnovare la fratellanza per rinvigorirla. «Promuovere nuovi rapporti fraterni», come ha detto il Papa al patriarca ortodosso Bartolomeo I, significa dar nuovo lustro ai vecchi rapporti e coltivarne di nuovi con i mai visti, con i mai cercati, con i mai saputi. Questo rende il cammino della pace un cammino religioso impegnativo, ma certamente più autentico e in grado di rinvigorire anche una politica internazionale che in Medio Oriente sembra ormai a tutti fallimentare, immobile e stantia.



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