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Il grande conservatorismo di Eugenio Scalfari

L’ultimo sermone domenicale di Eugenio Scalfari che, su La Repubblica da lui fondata nel 1976, scrive ormai a ruota libera, è da incorniciare: per la sua guazzabugliosità. Cioè per una accozzaglia di argomenti i più disparati e contrastanti che anche il lettore più disponibile a interpretare la prosa di quello che è stato considerato a lungo, almeno da un paio di generazioni di giornalisti e professionisti  militanti, un maestro, ora  si ostina a predicare di politica: di cui però gli sfuggono palesemente intenzioni e motivazioni.

Scalfari è l’antemarcia dell’antiberlusconismo. E si può così comprendere perché il Cav. (che chiama «pregiudicato», come usa tutta la subcultura italiana manettara) venga da lui considerato un sopravvissuto, che resta pur sempre tra i tre grandi della politica nel 2014, specie in sede propositiva, oltre che elettoralmente. Meno, molto meno si comprende l’astio di Scalfari per Renzi, Delrio e Boschi, che tratta poco meno che da mentecatti, malati di una penosa stupidità.

Grande è la ammirazione di Scalfari per Grillo e le sue continue oscillazioni fra protesta sublimale e antipolitica rozza. Inspiegabile la sua sottostima delle formazioni intermedie di centrodestra, che però valorizza per fare un dispetto a Berlusconi: una fisima, una ossessione mentale peggiorata con l’avanzata età. Apparentemente millantate le sue relazioni altolocate con Giorgio Napolitano e con Mario Draghi.

Ma, in conclusione, l’intero sermone scalfariano, iniziato con l’inten­zione di dettare la linea a un partito democratico che non vede l’ora di affrancarsi dalla segreteria e dalla presidenza del consiglio Renzi, giunge a conclusioni a dir poco regressive; trincerandosi nella difesa strenua di un senato che non si capisce cosa, effettivamente, debba costituire nel processo di rottamazione promosso dal ragazzone fiorentino. Il quale prometteva una riforma al giorno, ed è costretto a rinviare la riforma di Palazzo Madama a dopo il voto europeo: proprio a causa delle mille variazioni che ha assunto il testo governativo sul radicale mutamento della camera Alta.

Come strumento di difesa del vecchio e di ostruzione verso il nuovo senato, Scalfari minaccia il ricorso ad una costituente (e non all’art. 138 Cost.), sfidando Renzi e Berlusconi e schierandosi coi ribelli del Pd, coi fasciocomunisti grillini e coi burocrati di Palazzo Madama; i quali hanno ultimamente espresso come loro massimo sindacalista-conservatore il presidente Pietro Grasso. Come politico che si è intestato, nella storia repubblicana, qualsiasi libertà innovativa, ai limiti del sovversivismo,  il fondatore s’è come smarrito. Chi ricorda più il Piano Solo? E dov’è finito il liberal-libertarismo che combatteva con Lino Jannuzzi, Marco Pannella e Camilla Cederna?

Ma Scalfari, pur amante di storia – specie di quella che lo hanno avuto, a vario titolo, protagonista -, considerando gli italiani labili di memoria, è il primo a dimenticare che le riforme, se ci si crede davvero, occorre farle, non rimetterle a un futuribile parecchio remoto. Magari lontanissimo, bocciando aprioristicamente quello possibile.



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