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Il pensiero sociale cattolico per riformare l’Europa

Flavio Felice – Maurizio Serio

Ogni discorso sulla prospettiva dell’unità europea andrebbe considerato entro i poli dialettici delle forme monista e poliarchica di distribuzione del potere. Non è un caso che Benedetto XVI nella Caritas in veritate (nn. 57 e 67), per dare concretezza alla “via istituzionale della carità” in campo sovranazionale, rinvii ai principi di solidarietà, di sussidiarietà e di poliarchia: i caratteri specifici dell’autorità politica che la renderebbero capace di governance globale e conforme all’imperativo del rispetto della dignità di ciascuna persona, coinvolta, come ricorda Francesco nella Lumen fidei (n. 40), “in un tessuto di relazioni comunitarie”.

Sappiamo come la costruzione europea sia cresciuta assumendo il metodo  funzionalista, seguendo l’idea che la cooperazione interstatale su singoli settori avrebbe favorito una sempre maggiore unione. Un approccio che nel tempo si è trasformato in un neofunzionalismo preda delle lobbies, e che oggi sembra non bastare più, sia perché messo in crisi nel suo presupposto fondamentale (l’unità e l’omogeneità dei mercati interni come via all’unità dei popoli), sia per il riaffiorare di quella corrente carsica rappresentata dalla richiesta di una unità politica, anche in forma di una Europa delle patrie o dei popoli, che sembrava appunto definitivamente essere stata sconfitta dall’evoluzione storica della Ue.

La grande invenzione politica funzionalista dei Padri fondatori (Adenauer, Schuman, De Gasperi e Monnet) di cementare le capacità cooperative di un gruppo di Paesi attorno alle medesime risorse, il cui controllo era stato da secoli all’origine di svariati conflitti, rispose con un compromesso vantaggioso per tutti, ma non massimizzante per nessuno, a quello che oseremmo definire il “dilemma del prigioniero del Novecento”, dove il prigioniero era lo spirito nazionale, umiliato dai totalitarismi e pertanto potenzialmente rivendicativo. Fu questa, a nostro avviso, anche una corretta applicazione del liberalismo “per prove ed errori”, giacché sopravvisse anche al naufragio della Comunità europea di difesa nel 1954, che pure rientrava in quel progetto di direzione comune delle funzioni tipiche di uno Stato nazionale. Come ricorda Jan W. Müller, infatti, l’integrazione europea «puntava a creare ulteriori limitazioni all’idea dello stato-nazione democratico grazie alla presenza di istituzioni non elettive», trovandosi dunque alla perenne ricerca di un principio di giustificazione che la legittimasse agli occhi delle popolazioni.

Non a caso, la costruzione europea iniziò a scricchiolare allorché un progetto sicuramente coerente con questo percorso, quale l’allargamento del 2004 ai Paesi di recente democrazia (in linea a quanto accaduto con Spagna, Portogallo e Grecia), venne perseguito con la diffusione di standard, più che di valori, e  di tecniche, più che di ideali, il tutto a supporto delle pretese di sovranità (dispotica) di Bruxelles. Allo stesso modo, il progetto maldestro, naufragato nel 2009, di una Costituzione europea imposta dall’alto sulle culture storiche, religiose e politiche del Continente mostrò infine l’isterilimento di questa interpretazione inautentica del funzionalismo, determinando rigurgiti particolaristici, populistici e xenofobi, rafforzati da una situazione di crisi economica e di leadership che sta tuttora pesantemente contrassegnando il momento storico.

A questa impasse storica può soccorrere un approccio poliarchico che accantoni le pretese sovraordinanti della Politica con la “P maiuscola”, accontentandosi “sturzianamente” di annoverare il politico come sfera di produzione di una particolare quota di bene comune (l’ordine pubblico e la pace), accanto a tante altre diverse sfere ad esso in-differenti o comunque non subordinate.

Non si tratta di “limitare” la Politica, un tentativo peraltro esperito a più riprese in età moderna, quanto piuttosto di ridefinirne il significato e la funzione, riscoprendo, all’interno dello stesso pensiero politico europeo, dei filoni culturali di contestazione all’uniformalismo tecnocratico, di cui Bruxelles è l’ultima angosciante epifania. Riscoprirli però in nome non già di meri valori o di interessi, quanto, piuttosto, in nome di una aderenza alla realtà che è anche aderenza alla verità più profonda delle cose. Un rinnovato realismo europeo, dunque, basato sull’evidenza empirica delle relazioni storiche e delle contingenze politiche, perché come ebbe ad affermare Robert Schuman nella storica Dichiarazione del 9 maggio 1950: «L’Europa non sarà fatta in un sol colpo, né con una costruzione d’insieme: essa si farà attraverso realizzazioni concrete – creando dapprincipio una solidarietà di fatto».

Per far questo, occorre rigettare quella interpretazione di matrice hobbesiana che vede nel legame politico un mero patto di sottomissione fra lo “Stato” e il cittadino. Infatti, nonostante tutte le enunciazioni formali in nome della sussidiarietà contenute nei documenti comunitari, con la crisi è tornata evidente l’assoluta autoreferenzialità del comando politico europeo, in grado di imporre soluzioni, anche drastiche, a prescindere dal consenso popolare.

Ora, sappiamo che nell’età democratica il volto principale del consenso è dato dagli istituti di rappresentanza, specie indiretta. La soluzione passa allora per una riforma istituzionale che possa dare senso e sostanza all’invocazione, altrimenti propagandistica, per un’Europa “politica”. Una riforma siffatta, intesa in senso sussidiario, poliarchico e relazionale, mirerebbe a ridurre quel “deficit democratico” che accompagna sin dai suoi esordi il progetto europeista. Pertanto si potrebbe prevedere una redistribuzione dei poteri tra Commissione e Parlamento europeo, con quest’ultimo strutturato in due Camere elettive, l’una formata dai rappresentanti politici dei singoli Paesi membri, l’altra con competenza tecnica, e non politica, ristretta, ma non esclusiva, sulle materie economico-sociali, ed espressiva di gruppi di interesse transnazionali e iscritti ad un apposito registro. (Aggiungiamo che quest’organo andrebbe a rafforzare le competenze e il peso di un organo solo consultivo come il Consiglio economico e sociale, sostituendolo). Dal punto di vista della selezione dei rappresentanti, quest’ultima camera potrebbe essere eletta in un collegio unico europeo, a patto di includere una quota fissa (tre?) rappresentanti per ogni Stato membro, mentre la camera politica dovrebbe seguitare ad essere eletta in collegi nazionali. Ovviamente per entrambe sarebbe prevista la consultazione popolare diretta.

Quanto alle ricadute in termini di relazionalità, esse dovrebbero attenere al processo di consultazione popolare e di accountability della classe politica europea, predisponendo una piattaforma mediatica e informatica in grado di connettere costantemente i rappresentanti politici e tecnici delle due Camere con i loro elettori, durante la campagna elettorale e nel corso del mandato, prevedendo il ricorso a strumenti di open source, di monitoraggio dell’attività parlamentare, con la possibilità di un feedback immediato alle iniziative implementate. Con tali strumenti di democrazia partecipativa sarebbe per giunta possibile includere strati sempre più ampi di cittadini nell’attività politica, prevenendo rigurgiti di antipolitica e fidelizzando al dibattito internazionale gli elettorati più propensi a concentrarsi provincialmente solo sulle questioni domestiche.

A questo proposito, la stessa diffusione massiva di strumenti peer-to-peer di web democracy, come i social network, i forum o le applicazioni per l’aggregazione e lo studio degli open data delle amministrazioni pubbliche,  al di là della riverenza verso il mantra dell’innovazione tecnologica e di qualunque scontata retorica futurologica, va considerata alla luce del pericolo del costituirsi di una “dittatura degli attivi”, che surroghi semplicemente élite (supposte) corrotte e incompetenti con altre élite, cioè minoranze, agguerrite, organizzata e assidua che si impongano con non meno coercizione sulla  maggioranza dei cittadini..

Con uno spazio politico europeo che non pare al momento sufficientemente impermeabile di fronte a una possibile escalation di questo tipo, potrebbe avviarsi un trend di progressiva marginalizzazione dei moderati dal dibattito politico, in analogia a quanto avvenuto per mano di certi laboratori di azione politica d’avanguardia costituiti da quelle organizzazioni internazionali non governative, spesso non molto distinguibili da lobbies, operanti attorno al Parlamento europeo o in seno agli organismi dell’Onu, e che pure tanto entusiasmano una certa opinione pubblica. Si tratta allora di distogliere progressivamente l’elettorato dalle sirene populiste e radicaleggianti, col loro fascino di trasgressione rispetto ai canoni dell’ortodossia politica e partitica, facendolo invece man mano appassionare all’autentico gioco democratico imperniato, come ricordano D. Acemoglu e J. A. Robinson, sulla capacità inesauribile di innovazione delle stesse istituzioni, massima espressione dell’indirizzo popolare. In coerenza con l’invito di Papa Francesco ad “avviare processi più che occupare spazi”, la sfida della democrazia alla politica si gioca oggi sul terreno dell’inclusione, sia che si consideri la stessa democrazia sotto il profilo della libertà, sia che la si veda sotto quello dell’uguaglianza.

 


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