Avevo accennato ai motivi del mio interesse per questo libro in una recensione che ho pubblicato sul mio blog, qualche settimana prima dell’incontro con Nino Spirlì a Berlino. Il primo pensiero è stato: chissà cosa c’è scritto nel “Diario di una vecchia checca” così ho aperto il libro, ho cercato la data del mio compleanno, per curiosità, e c’era. L’evento descritto in quelle pagine è stato un pugno nello stomaco, mi sono fermato e ho deciso di ricominciare la lettura pagina dopo pagina, con rispetto per una narrazione vera e senza sconti. Un libro che narra una vita, una vita vissuta realmente.
L’autore ha messo a nudo se stesso, ha condiviso esperienze, paure, sogni infranti, tutto insomma. L’idea che mi ero fatto prima dell’incontro-dialogo con Nino era di un libro frutto di un lavoro quasi psicoanalitico, un’analisi introspettiva, un bilancio della propria vita e un momento di rottura con un passato non sempre facile. Un approccio che ho definito “apotropaico”. Dopo averlo conosciuto, averlo intervistato presentando il libro, ho capito che era tutto così, e c’era anche qualche cosa di più.
Nino ha parlato di una “liberazione” e di un “percorso spirituale”. Ed è così, il libro è solo un punto di partenza: è stato archiviato un pezzo di vita. Le contraddizioni e le ambiguità sono state messe in un quadro coerente, la vita dell’autore riacquista equilibrio: si incrociano paure, violenze, amori, affetti, speranze e aspettative di ogni genere, in un nodo fatto per essere subito districato. Il percorso individuale che l’autore definisce “spirituale”, gli ha donato la serenità necessaria per fare pace con il proprio passato e dare un messaggio a chi leggerà, messaggio che ciascuno di noi interpreterà come meglio può, in base ai propri vissuti personali e alle proprie emozioni.
Eh sì, le emozioni, un sono un altro pezzo importante della nostra esistenza: ci sono, bisogna conviverci perché nel bene o nel male sono parte di noi, e spesso, troppo spesso, ci fanno fare errori che solo con il senno di poi siamo in grado di valutare. Ma siamo anche poi sicuri che tornando indietro le vorremmo rivivere.
Nino si racconta a 360 gradi. Una carriera artistica di grande successo, con oltre trent’anni di teatro e televisione. Poi la stanchezza e il bisogno di riscoprire una propria umanità, e oserei dire “normalità”. Sul palcoscenico si mescolano finzione e realtà, identità concrete e fittizie; nella televisione altrettanto, forse anche peggio perché non giochi un vero ruolo, qualche personaggio, ma devi essere te stesso immerso in un mega contenitore di cose finte, elaborate per l’occasione schiave dell’audience. Nino dice che ha lasciato per ritrovare la sua umanità, così si dedica all’associazionismo e al volontariato in Calabria, per aiutare i migranti e non solo. Mettersi al servizio, un messaggio cristiano se vogliamo, ma non c’è niente di religioso, niente di istituzionale, è quel risultato di cui parlavo prima: un punto di arrivo per un’analisi introspettiva, e un punto di partenza per una nuova vita.
Le nostre idee politiche ci separano, il bisogno di comprendere ciò che ci circonda ci accomuna.
Così condividiamo molte cose e allo stesso tempo no. Abbiamo parlato di matrimonio omosessuale e adozione, di gay-pride e di politica, di Chiesa e di Papi e via dicendo. Argomentazioni che partono da assunti completamente diversi e che arrivano ad una conclusione comune: entrambi odiamo le etichette. Il libro stesso è un rifiuto delle etichette.
Sei gay o sei etero? Sei padre o sei madre? Sei giovane o sei vecchio? Sei di destra o di sinistra? Certamente certe etichette semplificano la nostra vita, le generalizzazioni e gli stereotipi (che possono essere positivi o negativi) snelliscono la complessità del reale e come sociologo questo lo comprendo e lo accetto. Ma allo stesso tempo vedo la necessità di superare certi schieramenti e certe etichette, proprio per trovare un punto di accordo tra posizioni che hanno assunti diversi, contenuti simili e conclusioni spesso identiche. Questo senza perdere di vista la propria identità individuale e il proprio universo valoriale e simbolico.
Se parlo del matrimonio omosessuale e delle adozioni, posso dire che è giusto che questo diritto sia esteso alle coppie omosessuali, perché così si rispetta un principio di eguaglianza. E per me questo è sufficiente per dire: sì ai matrimoni omosessuali in Italia. Ma devo anche dire che l’adozione è un diritto del bambino, non del genitore. Che il diritto ad adottare non ti viene riconosciuto perché sei omosessuale o eterosessuale, ma perché sei idoneo ad essere genitore. E perché la tua idoneità è di giovamento a quel bambino o a quella bambina: il superiore interesse del minore, ad avere una famiglia, qualunque essa sia (e sì, per me vanno benissimo famiglie eterosessuali, mono-genitoriali e omosessuali); ad avere la sicurezza di un piatto caldo e di un letto, di un tetto e soprattutto di essere libero dalla paura, dall’orrore della guerra e della povertà.
Ciò che più ho apprezzato del nostro incontro è stata la semplicità, l’informalità e la disponibilità ad un confronto sincero con la voglia di andare oltre certe divisioni, che nel nostro caso sono solo punti di vista alternativi sulla realtà che ci circonda.