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Oltre la festa del Primo Maggio serve un po’ di buon senso

Il giorno in cui si dovrebbe festeggiare il primo maggio come festa del lavoro, di ritorno dalla premiazione di 23 Cavaliere del lavoro su un totale di 90 Cavalieri del lavoro (la percentuale di donne premiate e valorizzate sempre troppo bassa!) e in attesa di partecipare su Rai Tre intorno alla mezzanotte a un dibattito insieme a Cesare Damiano ed  Enrico Morando mi viene spontaneo mettere nero su bianco alcune riflessioni. Naturalmente come contributo a trovare una luce in fondo al tunnel.

Così  2 riflessioni di buonsenso.  La prima. Come facciamo a rassicurare il popolo italiano tentando faticosamente di mettere in tasca 80 euro  ad alcuni, non aumentando le tasse, quando non basta allontanare  il rischio di  patrimoniale avendo ben chiaro che con l’aumento  del prelievo sulle rendite finanziarie, la tassazione del patrimonio degli italiani è già in corso?

Non è vero che non ci sia bisogno di misure straordinarie per abbattere il debito pubblico, che nelle stime del governo salirà quest’anno al 134,9% in rapporto al pil  ammesso che quest’ultima salga davvero dello 0,8% come ipotizzato nel Def, altrimenti sfonderà il tetto del 135%.

Da queste stesse pagine qualche mese fa (e non tanto tempo fa) a Letta  suggerimmo l’opportunità di un intervento che partendo dal patrimonio pubblico generi risorse capaci di ridurre una tantum e in modo significativo lo stock di debito fin qui accumulato e nello stesso tempo di fornire munizioni, sotto forma di investimenti in conto capitale, allo sviluppo.

Un unico intervento, un intervento straordinario basato sullo schema “meno patrimonio, meno debito”, valorizzando l’immenso patrimonio dello Stato e degli enti locali. L’idea che è peraltro condivisa da alcuni economisti di buonsenso, è quella di conferire ad una società ad hoc, da quotare in Borsa, quella parte già catalogata e più facilmente trasferibile del patrimonio pubblico (circa 800 miliardi, secondo il Tesoro), e contemporaneamente di chiedere ai patrimoni privati eccedenti un certo valore (1 milione, per esempio) di obbligarsi a sottoscrivere i titoli della società veicolo in modo da assicurare il buon esito dell’operazione,magari in più tranche).

Con il ricavato si potrà ridurre il debito appena sotto il 100% del pil – ci vogliono circa 500 miliardi a parità di pil, meno se la ricchezza cresce – risparmiando così una bella fetta di interessi (nel 2013 abbiamo speso 82 miliardi, il 5,3% del Pil, portando a 318 miliardi il conto degli ultimi quattro anni), e con il resto si potranno finanziare investimenti capaci di fare da volano all’economia.

La seconda riflessione è relativa al lavoro e al al testo del decreto legge n. 34 approvato dalla Commissione Lavoro della Camera e all’evidente tentativo di  mediazioni intervenute tra il ministro Giuliano Poletti (in quota Pd) e le diverse componenti del suo stesso partito che quella stesura hanno scritto, emendato e votato  in solitudine anche rispetto ai gruppi alleati, che  hanno tentato in vari modi, sempre inutilmente, di essere presi in considerazione.

I contenuti del decreto maggiormente interessanti  sono relativi al tentativo che  il governo voleva fare di ‘’liberalizzare’’ il contratto a termine, avendo colto  un interesse delle imprese (emerso dal monitoraggio sul primo anno di applicazione della legge Fornero) ad avvalersi di tale tipologia contrattuale se posta  al riparo dagli interventi  dei giudici del lavoro, sempre propensi ad interpretare il ‘’causalone’’, nonostante la sua genericità,  in senso favorevole alla stabilizzazione dei lavoratori.

Cosi’ l’urgenza e la semplificazione dei contratti a termine si  è  liberata aggrappandosi alla crisi., con un’ancora alle modifiche di forme contrattuali previste nel disegno di legge delega presentato dal Governo al Senato il 3 aprile 2014 – AS 1428, fermo restando che il contratto di lavoro a tempo indeterminato continua a costituire la forma comune di rapporto di lavoro.

Comunque  il senso è più o meno il medesimo che si ritrova esposto nelle finalità della legge n. 92/2012 all’articolo 1 che voleva garantire “maggiore flessibilità contrattuale”.  Sappiamo che la ‘’liberalizzazione’’ per tutti i 36 mesi di possibile durata di un contratto a termine per la medesima attività e con lo stesso datore è compensata dall’introduzione di un tetto del 20% da calcolare con riferimento ai soli lavoratori assunti a tempo indeterminato dallo stesso datore di lavoro (e non, genericamente, all’ “organico complessivo”) e che il conteggio va riferito a quelli in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione.

Ma  è virtuoso comunque  penalizzare i datori di lavoro, con l’obbligo di assumere a tempo indeterminato gli eventuali lavoratori eccedenti, come se  dare un posto di lavoro in più, sia pure a termine, fosse un’azione malvagia, da punire come tale?

Poi c’è la partita più delicata quella dell’apprendistato, salvando un simbolo di quella formazione che viene svolta all’esterno dell’azienda. L’obbligo per il datore di lavoro di integrare la formazione aziendale (on the job) con la formazione pubblica (obbligo escluso dal testo originario del decreto-legge, che configurava una mera facoltà in capo al datore di lavoro) è stato reintrodotto a condizione che la Regione provveda a comunicare al datore di lavoro le modalità per fruire dell’offerta formativa entro 45 giorni dall’instaurazione del rapporto di lavoro; pertanto, decorso tale termine il datore del lavoro non è più tenuto ad avvalersi della formazione pubblica.

Ciò significa che vi saranno trattamenti diversi perché non tutte le Regioni saranno in grado di produrre questa offerta formativa nei tempi previsti. E’ stato, poi, reintrodotto l’obbligo di redigere in forma scritta il piano formativo individuale, sebbene in forma semplificata. Tale scampolo di piano formativo è inserito, in forma sintetica, all’interno del contratto di apprendistato, e può essere definito anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali. Si può considerare un vero e proprio piano formativo questo così delineato?  E l’obbligo, per le imprese con almeno 30 dipendenti, di confermare almeno il 20% dei precedenti  apprendisti inseriti  per poterne assumere dei nuovi?Ma ciò aiuterà le imprese ad assumere?

Il decreto rappresenta comunque un passo avanti rispetto alla  legge n. 92 del 2012. Poi adesso deve passare al Senato.  C’è ancora tempo per modificare qualcosa. Intanto è  partito e operativo il Piano Garanzia Giovani e qui si vedrà cosa sapranno fare virtuosamente le Regioni delle risorse a disposizione: qui si gioca la credibilità di cambiare passo per il lavoro!

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