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La lezione di Tortora e il M5S

Fu l’indimenticabile amico Enzo Tortora – conduttore televisivo di primissimo livello, di cultura e di modi liberal, propugnatore di una giustizia giusta -, il primo italiano ad avere intuito, sotto la parziale influenza del libertarismo radicale, la potenza decisiva dello strumento televisivo se utilizzato in materia referendaria. Io, democristiano e laico, appassionato cultore della democrazia partecipata e della necessità di assicurare il rispetto del singolo elettore da qualsiasi manipolazione (nei seggi come nelle commissioni di controllo, municipali e giudiziarie), condividevo l’idea di un ricorso all’innovazione tecnologica anche per il voto popolare (come si usava nelle primarie americane, specie ad opera dei democratici); ma mettevo in guardia Enzo da un uso troppo semplicistico della tv ove la si assumesse come strumento di verifica delle intenzioni di voto di una comunità pluralista.

In concreto, Tortora, che s’era reso ben conto dell’influenza dell’audience di un programma tanto ai fini della valutazione di una serata, sia a quelli di una prosecuzione del medesimo programma, sia, soprattutto, a quelli di richiamo di finanziamenti commerciali, si chiedeva (e chiedeva a me conforto della sua intuizione) se non fosse il caso di chiedere sperimentalmente per un prodotto televisivo, ma per eventualmente applicarlo in sede politica, di invitare i telespettatori a rispondere, spegnendo e riaccendendo la tv ad una specifica domanda del conduttore: per esprimere un sì o un no netti, senza alcun’altra mediazione. Enzo era convinto, da buon genovese, che, adottando sul terreno politico un simile, semplicissimo sistema, si potesse risparmiare molto denaro pubblico; smantellare le vecchie cabine elettorali dei seggi; eliminare i costi di scrutatori e rappresentanti di lista e i brogli derivabili dai maneggi delle schede; che, prima di essere vidimate dall’ufficio elettorale centrale del Viminale, attraversano vari passaggi insidiosi quanto a controlli e possibili cambiamenti d’indicazione di voto.

Io, che aveva un paio d’anni meno di Tortora ma maggiore esperienza politica e di usi ed abusi delle «libere» elezioni, stentai a convincerlo della pericolosità della democrazia elettronica: già in partenza soggetta ad una suggestione collettiva da parte del conduttore; che, nel bene e nel male, con più o meno capacità di persuasione, con un ammiccamento o un gesto accattivante e alludente, oggettivamente influenza il teleutente, inducendolo a pronunciarsi in un attimo, senza pensarci su due volte, per l’una o per l’altra opzione a disposizione. In ogni caso, facevo osservare a Enzo che la democrazia elettronica poteva al più valere in materia referendaria, non in sede politica, in presenza di una pluralità di liste e di un numero maggiore di candidati. Infine gli facevo notare che la costituzione italiana aveva sì, all’ultimo momento, ammesso il ricorso al referendum: ma solo se abrogativo di una legge e non propositivo, giacché questo esercizio restava affidato al potere legislativo o comunque alla ratifica d’una assemblea elettiva. Aggiungo al proposito che i padri costituenti, chiamati a scegliere (anche solo a titolo meramente conoscitivo) fra vari modelli stranieri, si erano orientati per quello elvetico: dove, tuttavia, il referendum si adottava di solito su questioni non essenziali, localiste, ristrette a territori poco estesi.

Abbiamo avuto in Italia decine di referendum, per ciascuno dei quali il legislatore aveva fissato un quorum minimo di votanti per considerarli validi al fine di garantire la democraticità dell’istituto in sé e della materia trattata. Del resto l’Italia repubblicana era sortita da un referendum istituzionale, parecchio controverso proprio sulla questione dei votanti (e non dei semplici iscritti nelle liste elettorali o dei voti espressi), e in assemblea costituente non sembrò corretto eliminare il referendum nella normativa ordinamentale. Però certa bassa affluenza (con bocciatura del singolo referendum) e, soprattutto, certi altri referendum abrogativi approvati a larghissima maggioranza – come quello sulla responsabilità civile dei giudici – rimasto vergognosamente disapplicato, consigliavano di non distaccarsi dalla regola del quorum e, anzi, misero in discussione lo stesso istituto referendario.

Da un paio d’anni abbiamo una formazione politica – che si proclama radicalmente diversa da tutti i partiti sinora emersi nella storia repubblicana –, la quale non solo sostiene il referendum come strumento elettorale abituale anche in sede politica, ma lo applica all’interno della propria specialissima organizzazione prima che se ne discuta in parlamento o altrove. La diversità della Rete, intesa come strumento di una democrazia diretta e poco costosa, è stata confermata in trasmissioni televisive di questi giorni sia dal guru Gianroberto Casaleggio che dal tumultuante capo del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo.

I quali sono talmente convinti della bontà della loro concezione tecnologica della politica, da essere certi di conquistare il primo posto nella graduatoria delle preferenze politiche nelle europee del 25 maggio. Il che davvero rende dirimente la scelta del M5S rispetto all’intero campo dei partiti. Anche perché il progetto che sta dietro l’apparente modernità dello strumento elettronico e della diminuzione radicale dei costi delle operazioni elettorali, è in realtà una rudimentale riproposizione di una società agricola – il miraggio di Gaia, la terra sana e da nulla inquinata -, una utopia che anche nelle prime tribù umane si voleva superare: se non altro per allungare la propria durata in vita.



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