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La moda della grande riforma

Oggi va di moda la grande riforma. Quella del sistema istituzionale italiano. In vista della grande riforma i giornalisti (e i politici) si affannano ad illustrare modelli francesi e tedeschi, britannici e spagnoli. Noi vorremmo porre questo modesto contributo sotto l’egida di due grandi pensatori, uno straniero e l’altro italiano. Il primo è K.R. Popper. Il filosofo tedesco diffidava delle grandi riforme. Non era un conservatore e meno che mai un reazionario. Semplicemente sapeva che più le riforme sono vaste ed onnicomprensive maggiori sono le conseguenze impreviste, non volute e talvolta catastrofiche che esse possono avere. Popper amava invece il “pacemeal political engineering”, le riforme che nascono una per volta da una riflessione attenta sulla prassi e da una conoscenza attenta dei problemi reali. Il secondo pensatore da richiamare è Vincenzo Cuoco. Il grande pensatore campano ammonisce che non esistono costituzioni (istituzioni) perfette che si possano facilmente copiare e trasportare da un Paese ad un altro. Le buone istituzioni, come i buoni vestiti, sono quelle che meglio si adattano al carattere, alle virtù ed ai vizi dei popoli a cui devono servire. Non è detto che ciò che funziona in Francia o in Germania funzioni anche in Italia. Questo, naturalmente, non vuol dire che non si possa e non si debba approfittare dell’esperienza istituzionale di altri Paesi simili al nostro. Esistono, poi, delle regole strutturali dei sistemi politici che sono sistemi complessi che hanno bisogno di pesi e contrappesi per raggiungere un equilibrio funzionale. Non si può, per esempio, inserire in un sistema parlamentare istituti tipici di un sistema presidenziale e viceversa.

Veniamo adesso al nostro problema. Il nostro sistema legislativo, si dice, è lento e farraginoso, l’impulso che viene dal governo viene spesso non migliorato ma stravolto dal passaggio per le aule parlamentari. La colpa, si dice, è del bicameralismo paritario. Ma è proprio così? Vediamo.

Fino al 1971 il bicameralismo italiano ha funzionato abbastanza bene. Poi è venuta la riforma di Pietro Ingrao, sostanzialmente non cambiata dalle successive mezze riforme del 1996 e 1997 e peggiorata dalla prassi applicativa successiva. La riforma di Ingrao aveva una sua ragion d’essere e non vogliamo certo condannare i politici che la hanno fatta. Non era possibile che i comunisti sostituissero i democristiani al governo e gli elettori giustamente si rifiutavano di dare ai comunisti una maggioranza. Non era nemmeno possibile fare alla luce del sole una alleanza di governo fra comunisti e democristiani. D’altro canto il Paese era stanco del monopolio democristiano del poter e chiedeva cambiamenti o almeno un temperamento. Si fece, allora, un regolamento della Camera (e uno del Senato) eminentemente consociativo che rendeva difficilissimo l’approvare qualunque provvedimento senza il consenso dell’opposizione. Le prassi interpretative successive hanno fatto il resto. Dove il regolamento prevede che il presidente di Montecitorio “può” dare un qualche vantaggio alla opposizione la prassi ha letto che “deve” dare quel vantaggio. Quando si contingentano i tempi per assicurare l’approvazione di un provvedimento entro tempi certi la prassi vuole che i tempi dei gruppi di opposizione, una volta esauriti , vengano ampliati di un terzo. E poi? Poi i parlamentari della opposizione intervengono a valanga chiedendo la parola “in dissenso dal gruppo”. Hanno la parola ciascuno per un minuto, anche se poi non votano affatto in dissenso dal gruppo. Tutti questi interventi raramente contengono una idea innovativa, hanno solo la funzione di ritardare l’approvazione del provvedimento. Si chiama ostruzionismo. Una pratica che esiste in forme diversi in tutti i parlamenti del mondo. In altri parlamenti l’ostruzionismo è una misura estrema cui si ricorre in casi estremi. Con gli esponenti del Movimento 5 stelle l’ ostruzionismo è diventato prassi quotidiana. Esistono poi alcune altre riforme che migliorerebbero enormemente la resa del lavoro parlamentare. Esiste una procedura semplificata per la quale le leggi si possono approvare direttamente in Commissione senza bisogno di andare in Aula. Si dice allora che la Commissione lavora in sede deliberante. Questa procedura non viene praticamente mai utilizzata. Potrebbe però sgombrare il campo da tante leggi che non hanno una importanza decisiva. Continua QUI la lettura

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