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Le tante lezioni per tutti nel voto delle Europee

Ad eccezione del nostro Paese dove, con un inatteso plebiscito, il granduca di Firenze è stato eletto al trono di re d’Italia, negli altri 27 Stati dell’Eurozona c’è stato un Quarantotto. Non come quello di degasperiana memoria, ma come il primo: quello di metà Ottocento, quando da Budapest a Parigi i sudditi d’ogni condizione, etnie e religione, reclamarono a gran voce libertà e indipendenza.

IN ITALIA

Per quanto concerne l’Italia, il primo dato emerso è che gli istituti di sondaggio elettorale sono apparsi come drogati, fornendo sino all’apertura dei seggi, previsioni del tutto diverse dalle prime proiezioni che venivano con disinvoltura esposte in tv dagli stessi «esperti» che non avevano azzeccato una sola corrispondenza fra intenzione ed espressione di voto. Se si è seri, e visto che le previsioni hanno ingannato milioni di elettori inducendoli a concentrarsi sulla massima forza di potere nel timore di sfracelli populisti, si dovrebbe avere il coraggio di sottrarre a tali istituti una forza di pressione deviante e manipolatrice, invitandoli: o a modificare radicalmente le tecniche di rilevazione; o a concentrarsi su altri settori nei quali possono continuare ad avere un senso gli orientamenti di preferenza per questo a l’altro prodotto commerciale. Non si può lasciare a pseudoesperti di politica il potere d’influenza, negativamente oltre tutto, sulla libera scelta degli elettori.

IN EUROPA

In tutta Europa, a differenza parziale della dominatrice assoluta, la Germania di Merkel e di Schulz (quest’ultimo alquanto prepotente anche dopo il voto, che non ha premiato la socialdemocrazia europea ma semmai i popolari del Ppe), c’è stato un ampio rifiuto del burocratismo materialista e monetarista di Francoforte.  Il confronto col Quarantotto ottocentesco è dovuto proprio ad una moltitudine di rivendicazioni che sono non antieuropeiste, bensì favorevoli ad una Europa diversa: nella quale si sia liberi di confluire senza doversi sottomettere allo Stato assoluto che produce e vende autarchicamente, non comprando nulla nei paesi europei. Che l’indicazione nazionalista e indipendentista può bloccare un processo integrativo che si persegue da decenni, è verissimo. Ma, visto che gli euroscettici complessivamente rappresentano meno del terzo dei deputati a Strasburgo previsti, quanti vogliono un’Europa politica hanno ulteriori elementi per pretendere dal solido nazionalismo germanico un cambio radicale di manovra: facendo tutti più politica e meno demagogia. Anche i populisti euroscettici rammentano che lo sfrenato nazionalismo tedesco ha prodotto, nel XX secolo, due grandi guerre mondiali; e che l’Europa dei padri fondatori puntava appunto ad evitare nuovi assalti alla pace fra i popoli ad iniziativa prussiana ed hitleriana.

Renzi aveva detto prima del voto, e confermato dopo, che la consultazione europea non era da considerarsi un referendum pro o contro il suo governo. Era stato saggio ad affermarlo; e ancora più saggio a confermarlo. Perché oggi, su di lui, e non sul Pd, ricade la responsabilità non di cambiare per il gusto di rimescolare le carte, ma di riformare lo Stato. Mai in precedenza, nella storia repubblicana, era accaduto che in un uomo solo si riponesse la speranza di uscire dalla palude partitocratica. Renzi ha la ventura di disporre – come risulta anche dal voto del 25 maggio – di un parlamento che è quant’altro mai un partito-Stato. Non solo il timore di una deriva autoritaria grillina ha spinto milioni di italiani a spostare, da destra a sinistra, la propria preferenza; il plebiscito a favore di Renzi  è principalmente il frutto di una sistematica occupazione del potere, territorialmente strutturata, procurata dal vecchio Pd (e antecedenti), non dal nuovo. Renzi per primo lo sa. Come sa che i suoi gruppi parlamentari, malgrado il beneficio del premio consegnato loro dal porcellum, non sono simili a lui; e, al contrario, sono associati su posizioni conservatrici, giustizialiste, veteroclassiste, per niente riformistiche.

Proprio perché gode ora di un consenso larghissimo, mai sognato quanto a proporzioni, tocca a Renzi mostrarsi più che disponibile di fronte all’Italia che vuole, giustamente, rivoltare in numerosi suoi comparti. E su questo punto, decisivo, il suo destino prossimo s’incrocia con quello dei riformatori di centro-destra, che sul terreno hanno perso  voti a causa di una disaggregazione, a volte persino indecorosa e tribale.

Qui, insomma, si parrà la nobilitate del nuovo re in Italia. Se userà il partito-Stato come arma di dissausione d’ogni alternativa, non avrà futuro significativo. Ove s’incontrasse coi competitori di segno democratico sul cammino di riforme non gattopardesche, il suo nome lascerà un segno positivo nella storia nazionale. Naturalmente anche i competitori dovranno trarre la lezione che il voto ha loro consegnata: dividendosi per cento rivoli ambiziosi, rischiano non più soltanto l’insignificanza, ma l’estinzione. Riflettano, costoro, sui guasti che hanno provocato essi stessi sul proprio destino per miopia personalistica. Gli italiani non li hanno apprezzati, ritenendoli più poltronisti che riformatori. Facciano, tutti, autocritica. L’odierna  ondata renziana potrebbe anche non essere troppo lunga, se frenata da correnti sottomarine che spingono controvento i rematori: che non dispongono di una portaerei, ma di un veliero di piccolo cabotaggio.


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