La storia del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro è una storia arcinota. Scritta e riscritta più volte. Quello che invece va ancora svelato è il dietro le quinte: le manovre segrete della Gran Bretagna per bloccare la marcia comunista di avvicinamento al potere. È la storia del 1976, l’anno in cui, dopo aver a lungo valutato se, fra le varie opzioni possibili, scegliere il golpe militare classico di destra o una “diversa azione sovversiva”, Londra imbocca questa seconda strada. Il 23 febbraio di quell’anno se lo chiede il rappresentante permanente britannico presso la Nato a Bruxelles, John Killick, in un memorandum inviato al suo governo delinea uno scenario apocalittico per il nostro Paese.
L’Italia partecipa alle strutture di comando, occupa una posizione geostrategica decisamente importante sul fianco sud e ha un ruolo rilevante nelle consultazioni politiche tra i Paesi alleati. Se il nostro Paese accogliesse al governo un partito “che condivide l’ideologia che sta alla base del Patto di Varsavia”, cioè il nemico diretto, per la Nato si tratterebbe di “una sfida molto grave”, e si “creerebbe un immediato problema per la sicurezza”. Perché i segreti sensibili non sarebbero più protetti e finirebbero inevitabilmente per essere rivelati ai sovietici. E poiché Berlinguer non punta al ritiro dell’Italia dal Patto atlantico, la presenza all’interno della Nato di una quinta colonna sovietica renderebbe la situazione addirittura “paradossale” e “ancora più spinosa”.
E, in quel caso, “i problemi sarebbero solo all’inizio”, perché perderebbe efficacia l’intera strategia atlantica basata sulla deterrenza e si creerebbe una sorta di “effetto domino” sulle politiche interne dei Paesi membri dell’alleanza. Dunque, l’unico modo per “preservare la sicurezza delle informazioni top secret sarebbe quello di negarne l’accesso agli italiani, in maniera assoluta”. Ancora più efficace, suggerisce Killick, sarebbe “una netta amputazione dell’Italia dall’Alleanza”, cioè l’espulsione dalla Nato del nostro Paese “semicomunista”. È uno scenario da valutare per tempo, avverte. Anche se ora, la “questione più urgente per noi tutti sta nel capire come prevenire l’ingresso dei comunisti nel governo italiano”, dice.
Il 5 marzo l’ambasciatore britannico a Roma Guy Millard scrive una lettera ai capi della diplomazia londinese. “Il tempo ormai scarseggia” dice Millard “gli eventi potrebbero portare i comunisti ad avvicinarsi al governo, se non proprio a entrarvi, prima delle elezioni po¬litiche di giugno. (…) Il Pci desidera arrivare al potere con delicatezza e in modo imper¬cettibile (per quanto possibile). I comunisti sono molto bravi a convincere gli italiani che la conquista del potere sarà indolore nonché inevitabile”. Non è chiaro qui quale sia la no¬vità che tanto allarma l’ambasciatore. È vero, il mondo politico è in subbuglio. Ma lo sbocco – è il pensiero condiviso – saranno le elezioni politiche nella seconda metà di giugno, e i partiti si apprestano a sostenere un’intensa campagna elettorale.
Perciò, per quanto sia seria la situazione, proprio nulla lascia prevedere un repentino cambiamento negli assetti di governo prima dell’esito del voto. E allora? Se il diplomatico non è uno sprovveduto con scarso senso della realtà, la sua lettera ha un solo scopo: drammatizzare la situazione per indurre Londra ad accelerare i piani anticomunisti. Il 21 aprile una nota interna del Foreign office sulle “misure” da adottare in Italia invita i funzionari a non parlare, se non nelle sedi autorizzate, dei “piani di emergenza” segreti in fase di valutazione da parte dei ministeri degli Esteri e della Difesa di Londra.
Se la notizia diventasse di dominio pubblico, si darebbe l’impressione che la Nato si stia schierando “contro l’Italia”. Mentre il problema è, da un lato, proteggere i segreti nucleari dell’Alleanza, dall’altro far tornare l’Italia “in carreggiata”. Rimetterla in riga, insomma. Il 13 maggio vengono divulgate all’interno del Foreign Office le versioni rivedute e corrette di due memorandum sul “problema italiano”. Vale la pena soffermarsi sul secondo documento: “L’Italia e i comunisti: opzioni per l’occidente”. Porta la data del 6 maggio ed è diviso in tre parti. La prima indica una serie di possibilità “per un’azione prima dell’ingresso del Pci nel governo”. La seconda si occupa invece delle misure da adottare “nell’eventualità che il Pci ottenga una porzione del potere”. La terza parte è assai più interessante. Mentre nella prima bozza si parlava di un “possibile colpo di Stato”, ora quel punto è formulato così: “Azione a sostegno di un colpo di Stato o di una diversa azione sovversiva”.
La differenza è notevole. Nella versione precedente, infatti, si delineava uno scenario in cui le azioni sovversive fossero finalizzate alla realizzazione di un colpo di Stato militare classico. Adesso, invece, c’è una distinzione netta tra il golpe e un’azione sovversiva. Si tratta insomma di due opzioni diverse e alternative per raggiungere lo stesso risultato, da valutare entrambe in base a una realistica stima dei benefici e dei possibili danni. Ovviamente per la Gran Bretagna e per gli alleati che Londra dovesse trovare strada facendo. Dalle valutazioni contenute nel documento si capisce già qual è la loro preferenza, visto che l’idea di colpo di Stato, per quanto “attraente”, in Italia è “irrealistica”.
Il ruolo defilato degli Usa che volentieri lasciano la “patata bollente” della solidarietà nazionale Dc-Pci in mano agli alleati europei e l’attenzione di Mosca verso la politica energetica di Aldo Moro (non certo per l’ascesa del Pci, considerato anzi dal Pcus un temibile concorrente ideologico) fanno da sfondo all’apocalittico allarmismo politico-militare degli osservatori britannici. Un allarmismo che, pur tingendosi di “anticomunismo”, è in continuità con l’ostilità dei centri di potere economico inglese (e delle loro ramificazio¬ni nelle élites tradizionalmente anglofile italiane, da Casa Savoia alla sinistra “eretica” post-sessantottina, passando per i liberali) al tentativo del nostro Paese di sottrarsi all’antica presa inglese e ritagliarsi, già con l’Eni di Enrico Mattei, una nuova centralità mediterranea. Tentativo che avrebbe avuto nuova consacrazione con un accordo Dc-Pci intorno agli interessi nazionali strategici e che dunque, come ossessivamente ripetuto nei documenti da me consultati proprio a Londra, andava fermato “a tutti i costi”.