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Nuovo appello contro il celibato, stessa miopia di sempre

Ha destato, né poteva essere altrimenti, un certo clamore il discorso tenuto lunedì scorso da papa Francesco in apertura dell’assemblea dei vescovi italiani. Per due motivi: primo, per il fatto in sé, alquanto insolito; secondo, perché quello che ha detto, stando alle cronache, non avrebbe registrato il plauso unanime dei vescovi, lasciando anzi più d’uno perplesso, per usare un eufemismo. Forte, il discorso del papa – che i grandi media hanno come al solito riportato in modo alquanto discutibile centrando tutto l’intervento sul passaggio, uno dei tanti e per di più marginale nel contesto dell’intervento, in cui il pontefice dice che la Chiesa deve aiutare a non cedere al catastrofismo e alla rassegnazione – lo è stato sul serio, su questo non ci piove. E in alcuni tratti anche sferzante, con un linguaggio che non ha lasciato scampo ad equivoci o ambiguità di sorta, chiamando le cose per nome e cognome. Com’è nello stile di questo papa e come s’addice, soprattutto, al ruolo di un pontefice. Dei tanti punti toccati da papa Bergoglio, ne sottolineo tre, non a caso completamente taciuti dal grande circo mediatico. Il primo, che smentisce per l’ennesima volta la vulgata che vede in papa Francesco uno che con la Verità viene volentieri a patti privilegiando la Carità: “Servire il regno comporta di vivere decentrati rispetto a se stessi, protesi all’incontro, che è poi la strada per ritrovare veramente ciò che siamo: annunciatori della verità di Cristo e della sua misericordia. Verità e misericordia: non disgiungiamole. Mai! «La carità nella verità  – ci ha ricordato Papa Benedetto XVI – è la principale forza propulsiva del vero sviluppo di ogni persona  e dell’umanità intera» (Caritas in veritate, 1); senza la verità l’amore si risolve in una scatola vuota, che ciascuno riempie a propria discrezione: e «un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali», ch in quanto tali non incidono sui progetti e sui processi di costruzione dello sviluppo umano (ibid., 4)”. Il secondo, non meno importante e anch’esso controcorrente rispetto al “papa percepito”, riguarda invece la famiglia: “Tra i «luoghi» in cui la vostra presenza – dice Bergoglio ai vescovi – mi sembra maggiormente necessaria e significativa – e rispetto ai quali un eccesso di prudenza condannerebbe all’irrilevanza – c’è innanzitutto la famiglia. Oggi la comunità domestica è fortemente penalizzata da una cultura che privilegia i diritti individuali e trasmette una logica del provvisorio. Fatevi voce convinta di quella che è la prima cellula di ogni società. Testimoniatene la centralità e la bellezza. Promuovete la vita del concepito come quella dell’anziano. Sostenete i genitori nel difficile ed entusiasmante cammino educativo”. Il passaggio dove il papa esorta a testimoniare la centralità e la bellezza della famiglia ci porta dritti al terzo punto, che tocca da vicino la rinnovata polemica contro il celibato dei sacerdoti, questa volta innescata dalla lettera delle 26 amanti di altrettanti preti, che hanno scritto al papa chiedendo di abolire, appunto, il celibato. Nel suo intervento innanzi ai vescovi il papa a un certo punto parla dei sacerdoti, raccomandando ai vescovi di curare la “formazione umana, culturale, affettiva e spirituale”. Ecco, questo è il punto quando si parla di celibato (e non solo): la formazione. E dire formazione significa dire, innanzitutto, educazione alla fede, senza la quale il celibato non ha alcun senso. Se manca la fede tutto si riduce a livello terreno, puramente umano. Il celibato, al contrario, chiama in causa la trascendenza, ed è anzi un segno tra i più luminosi della trascendenza. E’ una scelta difficile, d’accordo, che richiede sacrificio, abnegazione, totale adesione ad un disegno di vita che esula dai nostri schemi consueti. Ma proprio perché così poco “umano”, il fatto che oggi sia contestato da ampi settori non è altro che la riprova di quella che è la vera crisi in atto nella chiesa. Che non riguarda, se non indirettamente, le vocazioni, la morale sessuale e via dicendo. Ma, per l’appunto, la fede. Va da sé che il problema non si risolve, come vorrebbero le 26 madame e il mainstream dominante, abolendo il celibato, ancorché non sia certo un dogma. Tanto meno in nome del “bene di tutta la chiesa”, che pare francamente una preoccupazione un po’ esagerata. Se si vuole affrontare in profondità la questione, è dalla formazione che bisogna ripartire. Come ha ben sottolineato padre Piero Gheddo, che intervistato dal Foglio ha detto: “Io sono ben contento di essere celibe perché ho interpretato il sacerdozio non come un mestiere. Fare il prete non è come fare il meccanico o l’ingegnere. Questa è una missione. E’ questa la grande differenza”. E ancora: “Il prete per essere veramente prete deve essere tutto di Cristo. Deve vivere come ha vissuto lui, imitarlo. Il prete deve portare Cristo nel mondo non solo con la parola, ma anche con la vita, e se non è interamente innamorato di Cristo, se non dedica tutta la sua vita all’imitazione di Cristo, al popolo fedele e all’obbedienza alla chiesa, è un’anima divisa”. E parlando dei seminari: “E’ nei seminari che si deve dire chiaramente che il prete deve essere totalmente di Gesù. Non si può dire sì, ma ecco…No. Un prete deve lasciar perdere tutto”. In gioco ovviamente c’è molto di più dell’affermazione personale del sacerdote, che anzi è tanto più affermato quanto meno pensa a se stesso. La vera posta in gioco è la credibilità del cristianesimo, che necessita oggi più che mai di testimoni veri, di autentici araldi del Vangelo, non di funzionari o manager. Oggi, conclude padre Gheddo, è difficile per un uomo qualunque “capire dove si trova, qual è il suo posto. Lo capisce se vede un prete davvero cattolico, un prete che ha il fuoco dentro”. Avere il fuoco dentro. Se lo ricordino i formatori.


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