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Un Otiorhynchus per Sherlock Holmes

Oggi è venuto a trovarmi il mio amico Watson. Con la sua Mary. Ci trovammo puntuali di fronte alla Central Station in un brulicare di gente, nel sottofondo degli altoparlanti e lo sferragliare del treno che lasciava, tra sbuffi e borbottii, il primo binario.
Appena appresi del breve tempo che mi avrebbe concesso, non ne fui lieto. Ebbi persino la tentazione di dare fondo ad alcune altre deduzioni, peggio dell’incontro al ristorante. La tentazione, però, durò pochi istanti perché non c’è migliore competizione di quella contro se stessi.
Il pranzo fu ristoratore. Anche grazie a un Arneis, quello di Ceretto. Un vino bianco, vivace, dal colore giallo come il grano di Giugno, capace di grandi effetti sul carattere dell’uomo. Così, l’umore volse al meglio. Lo stesso, meteorologicamente, fece il vento che, nell’ora del pomeriggio destinata al riposo o alla riproduzione, ebbe la meglio su di una minacciosa perturbazione. Essa rimase ferma all’orizzonte come se la nube di testa al convoglio dei cirri avesse, di colpo, tirato il freno d’emergenza trasformandolo in un convoglio di nembi.
A fare il resto fu l’azione. Fuori sul terrazzo, infatti, l’insidioso Doctor Otiorhynchus minacciava Miss Serrulata Lindley. Una splendida signorina che, in tailleur verde, si faceva baciare da un pallido sole vittoriano. La signorina era ignara del pericolo che stava correndo e non c’era tempo da perdere.
Io e Watson conducemmo una rapida indagine mettendo a fattor comune le sue conoscenze di biologia e di etologia e il mio finissimo fiuto. In pochi istanti, animati dal nostro guascone spirito d’avventura, quello acquisito nei sobborghi di Blackstone, individuammo contromosse e strategia.
Ci voleva un antidoto per battere il nostro avversario, il quale stava nel frattempo moltiplicando le sue forze come larve per attuare il suo infernale piano criminale. Attrezzammo quindi un improvvisato laboratorio e con le poche sostanze che riuscimmo a reperire in un comune ripostiglio domestico, mettemmo a punto una pozione. Uscimmo allo scoperto. Watson si avvicinò alla fanciulla senza insospettirla e ne sfiorò le vesti mettendo allo scoperto gli avversari. Per farlo il suo polso sinistro, quello già messo a dura prova in una precedente avventura, rimase colpito dagli spruzzi che intanto io orientavo con la più feconda delle eiaculazioni che quell’ugello improvvisato eletto ad arma poteva sprigionare. L’Otiorhynchus cercò di difendersi in tutti i modi. Provò pure a mimetizzarsi. Cercò di farsi scudo con la signorina Lindley e dai suoi arti mostruosi come chele parvero fuoriuscire bicipiti umani.
L’intruglio che avevamo sintetizzato con Watson, però, aveva creato uno strato viscido là dove l’Otiorhynchus cercava la presa. E alla fine scivolò via, cadendo nel vuoto. Senza che la signorina quasi si accorgesse di nulla. Dal suo sguardo ci parve avesse pensato che Watson la stesse circuendo.

Tornati dentro, io e Watson ci ripulimmo per scongiurare eventuali effetti collaterali indotti da quel potente antidoto di cui ci eravamo imbrattati.
Watson, esausto, sprofondò sul divano di fronte all’immensa libreria. E rimase a fissarla. L’impresa meritava un brindisi. Da uno dei moduli della libreria feci scattare un congegno segreto toccando il volume “Il Sole in tasca” di Sandro Bondi su Berlusconi e Olivetti. Si aprì un piccolo scaffale che conteneva il più prezioso dei Marsala. Il Vecchio Samperi di Marco De Bartoli. Quello invecchiato vent’anni. Festeggiammo così la disinfestazione della fotinia sul balcone.

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