Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, pubblichiamo l’analisi dell’editorialista Guido Salerno Aletta uscita sul settimanale Milano Finanza diretto da Pierluigi Magnaschi.
Le tensioni a Kiev, con le rivolte di piazza Maidan, sono state un pretesto, strumentali a suscitare a Mosca un riflesso pavloviano: la sola idea che l’Ucraina potesse aderire alla Unione europea, ed in prospettiva anche alla Nato, ha messo in moto un meccanismo inarrestabile di autodifesa.
L’ANNESSIONE DELLA CRIMEA
Il referendum e l’annessione alla Russia della Crimea erano quindi scontati, a loro volta usati strumentalmente per rompere lo schema del G8. L’isolamento della Russia sullo scacchiere internazionale, un obiettivo che il Presidente americano Barak Obama ha già dato per acquisito, e che vede operativamente il congelamento del G8 di Sochi e la riunione a Londra di un vertice solo a Sette, è il primo segnale. In ballo c’è molto più del granaio d’Europa, c’era il pericolo di un riequilibrio finanziario e valutario tra il dollaro ed il resto del mondo. La cautela mostrata recentemente da Mosca sul referendum tenutosi nelle altre province orientali dell’Ucraina era scontata: dopo aver reagito d’istinto, ottenendo quanto non poteva perdere, prende lentamente cognizione delle pesanti conseguenze sul versante geoeconomico.
IL MERCATO DEI CAMBI
Sul mercato dei cambi, infatti, la tensione seguita alla crisi ucraina è stata fortissima. Lo scorso 10 marzo, il cambio euro/rublo è arrivato a 50,62. Per ritrovare un altro picco così elevato bisogna ritornare indietro al 15 dicembre 2008, quando la crisi finanziaria americana scuoteva i mercati mondiali: quel giorno il cambio arrivò a 50,56. Non è quindi l’effetto voluto di un allentamento quantitativo alla maniera della Fed o della Banca del Giappone, ma dei capitali in uscita dalla Russia: il Governatore della BCE Mario Draghi al termine dell’ultimo direttivo di Francoforte, lo ha stimato in 160 miliardi di euro, cifra corrispondente a 220 miliardi di dollari.
LO SCHEMA DEI PETRODOLLARI
I carri armati ammassati alle frontiere ucraine sono solo delle sagome di cartapesta, buone per riempire gli schemi dei telegiornali: lo schema dei petrodollari si è incrinato. Non solo la Russia non ha mai affidato alle banche d’affari statunitensi il reimpiego finanziario del suo attivo commerciale in campo energetico, ma anche la Cina non utilizza più il debito pubblico americano per sterilizzare il suo surplus con l’estero. A febbraio scorso, i titoli USA detenuti da Pechino erano stati pari a 1.273 miliardi di dollari: praticamente la stessa somma che risultava investita a marzo 2013, 1.270 miliardi, ben inferiore al picco del luglio 2011, quando era di 1.315 miliardi. Lo stesso hanno fatto i Paesi esportatori di petrolio: sono fermi a 244 miliardi, allo stesso livello del luglio del 2011. La Russia è scesa dai 151 miliardi del luglio 2011 ai 126 miliardi di febbraio scorso. Solo il Giappone ha proseguito negli acquisti, arrivando a 1.210 miliardi rispetto ai 1.105 di febbraio 2013. C’è la curiosa posizione del Belgio, passato dai168 miliardi del luglio 2013 ai 341 miliardi di febbraio scorso: un mistero per tutti, che forse potrebbe celare gli impieghi dell’ESM, il Fondo Salvastati dell’Unione Europea. Se la sede ufficiale è in Lussemburgo, nel Trattato istitutivo è prevista anche una sede di collegamento a Bruxelles, che potrebbe essere stata utilizzata per queste operazioni, forse finalizzate a ridurre la tendenza del dollaro a svalutarsi.
LA STRATEGIA AMERICANA
La esigenza americana di mantenere la centralità del dollaro e quella finanziaria di Wall Street è messa a dura prova anche da Pechino che, nella prospettiva a dieci anni di una piena convertibilità internazionale dello yuan, ha preferito stringere accordi con la City usando la strategia del divide et impera.
LA RETICENZA EUROPEA
La timidezza con cui l’Unione europea sta seguendo gli Usa nelle sanzioni alla Russia è indicativa, come è significativa la larga adesione delle imprese europee allo SPIEF, una sorta di piccola Davos, che si svolgerà a Pietroburgo da 22 al 24 maggio prossimo. Mentre non mancano le rappresentanze delle imdustrie coreane, sono invece evanescenti quelle di Giappone, ed India ed Usa. Dalla Cina, poi, nessun arrivo. Anche la geopolitica ha i suoi riti e le sue sfide.
I RISCHI ESTERNI
Giovedì scorso, Mario Draghi è stato chiaro: la Bce se la deve vedere non solo con le ben note contraddizioni interne all’Eurozona, ma con un nuovo duplice rischio esterno. Da una parte, un euro troppo forte sul dollaro mina le esportazioni di gran parte del nostro continente, e dall’altra le conseguenze di una crisi geopolitica innescata dalle vicende ucraine. Tutto torna: come l’integrazione della Russia con l’Europa è nei fatti, prima ancora che nella storia, così l’euro si dimostra ancora una volta un fattore di inutile rigidità che impedisce gli aggiustamenti tra le diverse aree senza riuscire a scalzare il dollaro.
Anche stavolta, con la crisi ucraina, la risposta americana alle sfide portate alla centralità internazionale della sua moneta non si è fatta attendere.