Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, pubblichiamo l’analisi dell’editorialista Guido Salerno Aletta uscita sul settimanale Milano Finanza diretto da Pierluigi Magnaschi
I gesti di eroismo rimangono nella cronaca, mentre la storia è fatta di vittorie e di sconfitte. All’intera Unione europea, anche per quanto riguarda la politica monetaria, serve una nuova intelligenza strategica che metta al bando le improvvisazioni e gli errori di questi anni. Gli effetti delle manovre deflattive non solo sono ormai irreversibili dal punto di vista dei danni inferti al sistema produttivo ed all’occupazione, ma l’inflazione nell’eurozona, che non è mai stata così bassa, ormai mina profondamente anche le stesse capacità operative della Bce.
BASTA SALVATAGGI IN EXTREMIS
Ci siamo affidati troppo ai salvataggi in extremis compiuti dal Governatore della Bce Mario Draghi, a cominciare dalle due LTRO straordinarie varate a cavallo tra dicembre 2011 e febbraio 2012 adottate per evitare il collasso dei sistemi bancari di alcuni Paesi tra cui l’Italia che avevano subito un drenaggio inusitato, passando nel sistena Target 2 da un saldo attivo mantenuto ininterrottamente dal febbraio 2001 al maggio 2011, quando segnava ancora +9 miliardi di euro, passando ad un catastrofico -289 miliardi di agosto. Il secondo intervento d’emergenza, anche questo assunto in condizioni di allarme rosso sui mercati, fu il discorso tenuto a Londra il 26 luglio del 2012, quando sfidò la speculazione a non proseguire nei suoi attacchi a taluni titoli di Stato, preannunciando che nell’ambito del proprio mandato avrebbe assunto ogni decisione possibile. Il settembre successivo, la Bce varò il programma OMT, una vera a propria “arma fine di mondo” che consentirebbe alla Bce di comprare senza limiti predeterminati titoli di Stato nel caso che le tensioni sul mercato portassero i loro tassi di interesse a livelli incompatibili con la politica monetaria.
LA FISSAZIONE NEFASTA DELLA BCE PER LA STABILITA’ BANCARIA
Da allora, la Bce si è occupata più della stabilità del sistema bancario e della introduzione di una metodologia di bail-in in caso di dissesti, concentrandosi su un esercizio preventivo e straordinario di sorveglianza prudenziale unificata, che si concluderà a novembre di quest’anno. La politica monetaria si è limitata a ridurre il tasso di riferimento, portandolo dapprima allo 0,5% e poi allo 0,25% con le due decisioni assunte rispettivamente l’8 maggio ed il 13 novembre 2013. Da allora, e sono passati ormai sei mesi, si è in attesa di interventi non convenzionali di immissione di liquidità. Nessuno sa esattamente di che cosa si potrebbe trattare: le ipotesi vanno da un rinnovo delle Ltro ad un sistema di funding for lending sul modello adottato dalla Banca d’Inghilterra, dall’acquisto dei crediti bancari verso le pmi previamente cartolarizzati in appositi veicoli alla introduzione di tassi negativi sui depositi nella riserva non obbligatoria. Sarà un ennesimo palliativo se mancherà una nuova strategia economica nell’eurozona.
I TRE PARADOSSI
Guardando i numeri, siamo di fronte a ben tre paradossi. In primo luogo, c’è un conflitto latente tra la politica valutaria e le decisioni assunte per chiudere il gap dei conti con l’estero, anche infra-Ue, di molti Paesi dell’Eurozona: se giovedì scorso, al termine della riunione del direttivo della Bce, anche il governatore Mario Draghi si è detto fortemente preoccupato per il pericolo di un euro troppo forte rispetto alle altre valute, occorre rilevare che il saldo complessivo delle bilance dei pagamenti correnti dell’Eurozona è in attivo del 3,5% del suo pil (vedi grafico) e che ciò deriva non solo dall’attivo del 6% della Germania, ma dalla enorme contrazione degli import europei determinata dalle manovre fiscali restrittive adottate in questi anni.
Si è fatto della deflazione competitiva il driver per il risanamento dei conti con l’estero, all’interno ed all’esterno dell’Eurozona. A questo punto, un attivo struttuale dei conti con l’estero dell’Eurozona è difficilmente conciliabile con una svalutazione tout court dell’euro; anzi è il miglior viatico per una ulteriore svalutazione del dollaro. Il fatto invece che l’attuale cambio dollaro/euro, stabilizzatosi intorno a un rapporto di 1,40/1 sia penalizzante per l’economia italiana e premiante per quella tedesca è un problema tutto interno all’Eurozona. Non sono certo gli Usa che ce lo possono risolvere.
C’è quindi una contraddizione ancora più complessiva: se si rimprovera ancora alla Cina di non contribuire a sufficienza al ribilanciamento globale dei saldi esteri nonostante abbia fatto crollare il suo avanzo delle partite correnti sul pil dal 10,1% del 2007 al 2,3% del 2012, è incredibile che la strategia europea punti a sua volta a un avanzo strutturale. L’Europa concorre alla creazione degli squilibri planetari, anziché alla loro correzione, e scarica all’esterno le sue contraddizioni.
L’INFLAZIONE
Il secondo paradosso riguarda le relazioni tra un tasso di inflazione strutturalmente più basso rispetto all’obiettivo del 2% e le strategie di riduzione prospettica dei rapporti nominali debito pubblico/pil adottate con il Fiscal Compact. L’inflazione media nell’Eurozona è in costante calo dal 2012, passando dal 3% allo 0,5% di quest’anno. Gli effetti nocivi di questa situazione sono evidenti, basta prendere il caso dell’Italia: nonostante abbia raggiunto un “quasi pareggio strutturale” del bilancio, il rapporto debito pubblico/pil cresce ancora soprattutto per via della bassa crescita dell’inflazione. Se questa fosse del 2%, anziché dell’1% come invece si prevede per il 2014, e considerando che il pil reale sarà del +0,8%, ne deriva che il pil nominale crescerebbe del 2,8% e non dell’1,8%. Il rapporto debito pil sarebbe automaticamente, aritmeticamente, inferiore. Poiché nel Def per il 2014 si prevede che il deflatore del pil italiano cresca all’1,2% nel 2015 e si stabilizzi all’1,5% fino al 2018, c’è da mettere in conto un incremento ancora considerevole del rapporto nominale debito pubblico/pil che deriva solo dalla bassa inflazione.
In pratica, in Italia così come in Grecia, altro Paese afflitto da un debito pubblico elevatissimo, un meccanismo di riequilibrio che si basa su rapporti nominali tra debito e pil, calato in un contesto in cui l’inflazione rimane per lungo tempo inferiore all’obiettivo del 2%, rende ancora più onerosa la stabilizzazione e la riduzione del debito.
TERZO PARADOSSO
Il terzo ed ultimo paradosso è rappresentato dalla contraddizione tra la caduta della inflazione nell’eurozona e la fissazione al ribasso del tasso di riferimento da parte della Bce. Infatti, quando a maggio 2013 il tasso di riferimento della Bce fu portato dallo 0,75% allo 0,50%, il tasso di inflazione nell’eurozona era dell’1,4%: il tasso di riferimento era quindi più basso dell’inflazione dello 0,9%. A novembre scorso, quando il tasso di riferimento fu ridotto allo 0,25%, l’inflazione era intanto calata allo 0,9%: il differenziale si era ridotto quindi allo 0,65%. Ad aprile di quest’anno, ultimo dato comparabile fornito da parte della Bce, l’inflazione è stata dell’0,7% (dopo aver registrato appena lo 0,5% in marzo), per cui il differenziale è sceso ancora, allo 0,45%. Il vantaggio, del tutto teorico, di un tasso di riferimento estremamente basso si è dimezzato: in meno di un anno, il differenziale rispetto all’inflazione è passato dallo 0,9%% allo 0,45%. Anche qui c’è una progressiva insufficienza della politica monetaria rispetto alla necessità di far riprendere l’economia attraverso prestiti erogati a tassi di interesse convenienti. L’inflazione è scesa più velocemente dei tassi di riferimento, ormai fermi da novembre, e quindi anche l’efficacia di questa decisione di politica monetaria si è ridotta progressivamente.
IL SISTEMA BANCARIO
La verità è che anche il sistema bancario non ha ricevuto alcun aiuto dalla Bce: l’esercizio straordinario di supervisione sui bilanci bancari ha reso ancora più prudenti le banche; sui bilanci di queste ultime si stanno scaricando ancora gli effetti della recessione indotta dalle manovre fiscali e l’aumento delle sofferenze si è fermato solo perché ormai sono calcolate al netto delle dismissioni di asset e crediti inesigibili; gli aumenti di capitale in programma serviranno prevalentemente a rafforzare i ratios e non ad aumentare il credito alle imprese.
Non si può fondare la chiusura dei gap sull’estero nei Paesi deficitari con la deflazione, registrare di conseguenza un attivo strutturale nella bilancia commerciale dell’Eurozona verso il resto del mondo e ritenere che un euro troppo forte sia il frutto di un destino cinico e baro. E’ il risultato di strategie che avvantaggiano alcuni Paesi europei e ne danneggiano altri.
IN CONCLUSIONE
Non si può mettere in piedi un meccanismo di risanamento delle finanze pubbliche e di riduzione del debito che assume come dato imprescindibile il pil nominale ed adottare contestualmente politiche depressive che abbattono per anni non solo l’economia reale ma anche l’inflazione, portandola di gran lunga al di sotto del 2%, livello implicito per la stabilità dei prezzi e per la sostenibilità del Fiscal Compact.
Non si può propagandare la deflazione dei salari e dei prezzi per guadagnare competitività sull’estero e poi accorgersi che con un’inflazione così bassa anche i tassi di riferimento tendenti allo zero decisi dalla Bce non servono più a niente.
A giugno ci si attende che la Bce prenda nuove decisioni straordinarie. Ma senza aver eliminato prima le contraddizioni di fondo delle politiche europee, sarà solo un altro atto di eroismo. Proni, per una nuova onorevole sconfitta.