Il 40% delle Poste e il 49% dell’Enav per un totale di oltre 15 miliardi di euro. Sono queste le cifre che incasserà l’Erario dalla vendita dei due enti pubblici. Il Consiglio dei Ministri ha ratificato infatti pochi giorni fa la delibera sulla cessione delle quote di minoranza dei due istituti, sostenendo un progetto che si inserisce perfettamente nell’orizzonte concettuale delle riforme strutturali di Monti e Letta. La privatizzazione di Poste Italiane, che pare debba avvenire tramite un’offerta pubblica di vendita rivolta ad un’ampia platea di risparmiatori, dovrebbe privilegiare i dipendenti della società tramite la concessione del diritto di opzione sulla vendita delle quote o attraverso l’assegnazione di un pacchetto azionario a titolo gratuito. Per l’Enav invece si profila la strada della quotazione presso la Borsa di Milano.
Ad ogni modo la quota di maggioranza rimarrà ben salda nelle mani del Ministero dell’Economia, rispettando la formula ampiamente collaudata della golden share statale. Privatizzazione soltanto parziale, ma la questione ha già sollevato, come d’altronde era prevedibile, una decisa opposizione da parte di chi sottolinea già da tempo i pericoli delle privatizzazioni come formula per l’abbattimento del debito pubblico. In primo luogo si teme che il servizio a cui le Poste e l’Enav sono preposti possa subire disagi o andare incontro ad una lievitazione dei prezzi, ma in secondo luogo è soprattutto la posizione dei dipendenti subordinati a preoccupare le associazioni e alcune sigle sindacali.
Al lettore attento non sfuggirà che il dibattito appena proposto ricorda molto da vicino la faccenda di Alitalia, che proprio in questi giorni sembrerebbe prossima ad una risoluzione tutt’altro che vantaggiosa per il nostro Paese e per i dipendenti dell’azienda. Nel 2006 l’ex premier Romano Prodi denunciò pubblicamente lo stato di cattiva salute dell’ente aviario, sostenendo con fermezza la necessità di una sua privatizzazione. L’ offerta di Air France, interessata all’acquisto di una quota di maggioranza, fu però fermata nel 2008 da Silvio Berlusconi, orgoglioso di poter difendere il gioiello italiano e di non svenderne il valore. Alitalia rimase in mani italiane e il governo promise di garantirne il recupero. Per perseguire questo obiettivo, in uno dei piani di ristrutturazioni messi in atto, si decise di concedere ai dipendenti azioni societarie in luogo della liquidazione pensionistica. Tuttavia la società continuò a registrare voragini in bilancio facendo crollare i titoli azionari del gruppo e i dipendenti – quelli che nel frattempo non erano già stati licenziati – si trovarono senza liquidazione e con azioni prive di valore tra le mani.
La vicenda risale a solo sei anni fa ed è tutt’ora aperta, ma qualcuno sembra già averla rimossa dalla mente. Nel 2008 il segretario della Cisl Bonanni elogiò la scelta della concessione di azioni ai dipendenti dicendosi certo che questo avrebbe sensibilizzato ed incentivato i lavoratori di Alitalia. L’azionariato dei dipendenti avrebbe oltretutto avvicinato l’Italia al (presunto) virtuoso modello di governance tedesca, dove gli operai siedono al tavolo con manager e proprietari senza l’intermediazione sindacale. Oltre alla contorta questione che porta un leader sindacale a promuovere un modello lavorativo in cui non sono contemplati i sindacati, c’è da sottolineare che la vicenda Alitalia non ha insegnato nulla ai policy maker nostrani. Lo stesso Bonanni è tornato infatti ad esprimere il suo compiacimento a proposito della soluzione del dipendente-socio che si vorrebbe mettere in atto per le Poste, dove la Cisl è la sigla sindacale di riferimento.
C’è da dire che sia le Poste che l’Enav non versano nella gravosa situazione in cui si trovava e si trova ancora oggi Alitalia, ma onestamente sentiamo di condividere le istanze di chi si oppone al progetto iniziato dal governo Letta e concluso da Renzi. Oltre alle ineccepibili preoccupazioni appena riportate, bisogna aggiungere che le privatizzazioni agiscono sul lato dell’offerta in un periodo in cui c’è un disperato bisogno di domanda. Ci spieghiamo meglio. La vendita dei due enti potrà anche abbattere una parte dell’indebitamento nazionale, ma senza un aumento potere d’acquisto dei consumatori si rinvia solo il problema al futuro. Il rapporto debito/Pil è infatti destinato a crescere se la produzione si mantiene in uno stato di stagnazione o di semi-recessione a fronte di un indebitamento crescente.
A quel punto cosa faremo? Venderemo gli Uffizi o il Colosseo? D’altronde il Portogallo ha venduto 85 opere originali di Mirò per pagare il suo debito, perché non mettere all’asta dunque anche il Duomo di Milano? L’Economist qualche tempo fa ha profetizzato che le nuove privatizzazioni riguarderanno persino le ricchezze non economiche (arte e paesaggistica su tutti): in Italia siamo sempre indietro di qualche anno rispetto al resto d’Europa, ma crediamo di poter già prefigurare cosa ci aspetta.