Ieri a Firenze si è tenuto il dibattito intitolato State of the Union. I candidati presidenti alla presidenza della commissione europea si sono confrontati con le regole del classico dibattito all’americana e sono stati i giornalisti Tony Barber (Financial Times), Joseph H.H. Weiler (presidente Eui) e Monica Maggioni (Rainews24) a moderare il dibattito.
I candidati presenti erano quattro: Guy Verhofstadt (Alde); Martin Schulz (Pse); Jean Claude Juncker (Ppe); Josè Bovè (Verdi).
Avrei voluto buttare giù qualcosa già subito dopo il dibattito ma le reazioni a caldo non giovano ad un’osservazione di un dibattito pre-elezioni europee. Ho lasciato passare una sera, una mezza mattinata, poi ho buttato giù qualcosa.
Quel qualcosa che, in buona sostanza, prova a definire – senza alcuna pretesa – il dibattito di ieri perché, comunque, al di là della retorica calcistica di vincitori e vinti, qualcuno è risultato quantomeno più convincente degli altri tre o due.
I più convincenti,nell’ambito della loro posizione politica, sono stati Verhofstadt e Bovè, rispettivamente dell’Alde e dei Verdi Europei.
Il primo perché, da politico navigato quale è Verhofstadt, ha tolto ogni possibile argomentazione a Juncker che si è arrabattato per tutta la durata del confronto ed è riuscito a spuntarla alla benemmèglio; il secondo perché, nonostante i Verdi europei si siano estremamente moderati e liberalizzati, ha mantenuto alcune posizioni che hanno fatto commentare gli altri contendenti con un sarcastico e, abbastanza irridente, «E’ tornato il vecchio Bovè!».
Chi, invece, ha espresso posizioni ambigue è stato proprio Schulz. O meglio: i numeri del Pse sono tali per cui «un gruppo composto da 31 partiti membri, 19 al governo di cui oltre l’85% partecipanti ad un governo di larghe intese. Le larghe intese non sembrano quindi far parte solo della strategia politica del Partito Democratico Italiano ma sono una costante dell’operato della maggioranza dei membri del suo gruppo politico europeo, lasciando spazio ad importanti riflessioni riguardo al crescente centrismo politico europeo che sta accomunando le principali formazioni del continente».
Per il Pse l’ambiguità è quotidiana, dal momento che, riportato poco fa, governa assieme al Ppe in molti dei paesi dell’eurozona. Ma il fatto stesso che Martin Schulz, durante il dibattito, affermi che «il criterio del 3% è nel trattato e noi non possiamo cambiarlo», se non è una stilettata al governo di Matteo Renzi, poco ci manca.
Tutti e quattro i candidati, comunque, non si sono pronunciati sui trattati e sul cambiamento di essi anche perché lo stesso Schulz ha dichiarato che il criterio del 3% non si può modificare.
L’unico trattato da rivedere, tirato in ballo nel dibattito, e contro il quale il verde Bovè ci si è schierato apertamente è stato quello di libero scambio.
Egli, però, nonostante questo ha detto sì di rivedere i trattati di libero scambio (TTIP) perché uccideranno agricoltura e ambiente, ma ha anche detto che «bisogna essere rapidi, pur non cambiando i trattati».
I Verdi europei, dunque, si stanno traducendo in una forza politica molto liberal.
E la sinistra?
Già, la sinistra…
I candidati alla commissione europea sono cinque, c’è anche Alexis Tsipras: leader di Syriza e candidato del Gue/Ngl, cioè del gruppo della sinistra unita/sinistra verde nordica.
Tsipras, stando a quanto letto in diretta da Rainews24 prima del dibattito, non ha partecipato in quanto non sa padronare la lingua inglese, ma non ho trovato un riscontro a quanto letto in diretta dall’emittente televisiva. Risulta strano, comunque, che in un’eventualità come quella della scarsa padronanza della lingua inglese da parte di un candidato presidente, non si sia provveduto ad un interprete per poter permettere al candidato di partecipare al confronto.
Ma tant’è.
Comunque sia, la sinistra è stata assente e la mancanza di argomenti del Gue, della Sinistra Europea, s’è sentita: l’accettazione dei trattati europei sembra essere, ormai, un minimo comune denominatore per le forze che si vogliano dire europeiste, una specie di mantra che va ripetuto come se fosse la più corretta delle cose da fare per i candidati che si andranno a sfidare il 25 maggio.
L’unica forza politica anti-trattati non ha partecipato al dibattito che avrebbe garantito visibilità alle liste della sinistra europea ed italiana; l’unica forza – dunque – che, sebbene il dibattito fosse in quadrato con delle regole ferree e a cui era impossibile rispondere in maniera totale e con un copioso flusso di tesi, si schierava apertamente per la revisione dei trattati tutti.
La sensazione finale, dunque, è stata quella di un dibattito incentrato sul rispetto dell’Europa così com’è stata finora, magari cercando di limarne qualcosina, ma non intervenendo sul cardine di essa: sui trattati.
Un’americanizzazione progressiva del dibattito, del confronto e anche dell’impostazione delle argomentazioni: tutti erano concordi con i trattati e proprio quando, come scritto prima, Bovè si è apertamente messo di traverso contro il TTIP, essendo uno su tre, è stato (quasi) schernito.
E, forse, sarebbe servito a questo una sinistra in quel dibattito: ad arginare la progressiva liberalizzazione politica, l’americanizzazione totale che fa dire a Martin Schulz come l’affluenza alle urne non sia determinante per la legittimazione alle elezioni, portando ad esempio il numero dei votanti negli Stati Uniti d’America.
E risulta quantomeno strano, quindi, che si porti ancora come esempio la confederazione degli Stati che più di tutti ha fatto per limitare la democrazia, attraverso un bipartitismo coatto, relegando ai margini della politica con la P maiuscola le istanze di cambiamento che provengono dai numerosi settori della società americana.