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Vengo prima Io. A 40 anni dal referendum sul divorzio

In questi giorni ricorre il quarantesimo anniversario del referendum del 12 e 13 maggio 1974, che con la vittoria dei “no” confermò la legge, varata quattro anni prima, che introdusse il divorzio in Italia. Gli oppositori di quella legge, di fronte ai numeri sulla situazione attuale dei matrimoni nel nostro paese, hanno buon gioco nel sostenere che la legalizzazione del divorzio – anche a fronte di un mutamento del costume già in essere nella società dell’epoca – è stato a tutti gli effetti un acceleratore di una crisi che altrimenti avrebbe assunto, forse, connotati ben diversi e meno disastrosi. Ovviamente una risposta certa, in un senso o in un altro, è impossibile averla e non l’avremo mai. La domanda però resta: è un caso che dal ’74 ad oggi tutte le statistiche confermano un crollo inarrestabile dei matrimoni? E la risposta, per quanto mi riguarda, è no, non è un caso. Per un motivo molto semplice, che tocca da vicino una dinamica umana che ogni uomo (o donna, almeno in questo siamo perfettamente uguali) un minimo onesto con se stesso conosce molto bene senza bisogno di scomodare Freud e dintorni: se sai che esiste una via di fuga, un qualcosa di assolutamente legale che puoi fare, il nostro amor proprio, istinto di sopravvivenza o più semplicemente egoismo – in ogni caso l’esatto contrario dell’amore – che si manifesta soprattutto nelle situazioni di crisi della coppia, di difficoltà, di periodi meno facili come ce ne sono  quando si decide di vivere assieme ad un’altra persona, fa sì che alla prima occasione utile quella cosa sarai molto più portato a farla di quando non era consentita. Questo per dire che tra diritto e costume c’è un rapporto di reciproca influenza che spesso e volentieri – e in alcuni casi anche strumentalmente e in modo fuorviante come lo fu per la legge sul divorzio o peggio ancora per quella sull’aborto – non viene tenuto nel debito conto nel dibattito pubblico, soprattutto all’atto di valutare le conseguenze di certe iniziative. Per cui nuovi stili di vita portano a nuovi diritti; a loro volta, nuovi diritti inducono nuovi stili di vita. Su entrambi poi c’è il peso dell’opinione pubblica, poiché la formazione di nuovi stili di vita è a sua volta influenzata dai cambiamenti indotti nell’opinione pubblica da chi controlla l’informazione: se riesci a rappresentare la realtà in un certo modo, è più facile l’insorgenza di spinte dal basso per rivendicare questo o quel diritto.

Al di à di tutto, il dramma della legalizzazione del divorzio sta tutto qui: l’aver voluto mettere nero su bianco che Io vengo prima di Te, e che per questo non esiste e non deve esistere scelta da cui non si possa tornare indietro. E una volta messolo nero su bianco, il gioco è stato semplice. Qui non c’entra nulla, come sosteneva l’allora rettore dell’Università Cattolica, Lazzati, il rispetto della laicità, il fatto cioè che non si può imporre a chi credente non è un qualcosa che ha senso solo in un’ottica di fede. Primo, perché tanta gente che pure non è credente non divorzia; secondo, perché la questione in gioco, se proprio vogliamo metterla su questo piano, è squisitamente laica, e verte, appunto, sulla reversibilità o meno delle scelte che uno fa, e se queste scelte siano un fatto puramente privato o siano piuttosto atti pubblici, coinvolgendo quindi la sfera del bene comune. Poi è vero, ne sono convinto io per primo, che al di fuori di un’ottica di fede il matrimonio è più difficile. Ma questo è un altro discorso, su cui magari sarà interessante tornare. Anche per una singolare coincidenza che per chi, come il sottoscritto, si sforza di leggere gli eventi partendo da una ben precisa prospettiva, non può non interrogare: il secondo e ultimo giorno del referendum sul divorzio era un 13 di maggio, giorno in cui la chiesa celebra la Madonna di Fatima.

 


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