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Vi spiego perché l’Europa ci sta accompagnando verso il burrone

Pochi giorni orsono si sono tenuti a Roma due importanti incontri con i Nobel dell’economia Amartya Sen (ai Lincei) e Joseph Stiglitz (alla Luiss), compagni con Giorgio La Malfa di un corso di 24 persone al MIT di Cambridge (USA) condotto da Franco Modigliani dal quale emerse anche il Nobel George Akerlof, maritato Janet Yellen (Governatore della Fed). Sen ha commemorato Albert Hirshman, uno dei pionieri della cultura dello sviluppo, ossia di quel movimento culturale che, nel dopoguerra, portò l’Occidente al livello di benessere e, ammettiamolo, di civiltà. Fu costruito e messo in funzione l’ascensore sociale anche per la parte povera della società e la disoccupazione non strutturale fu quasi sconfitta.

LE PAROLE DI STIGLITZ

Stiglitz, invece, ha fronteggiato, con un qualche disagio per la presenza di Giorgio Squinzi, Presidente di Confindustria, e un parterre di economisti e politici sostenitori dell’appartenenza a un’Europa che nega la validità di quella cultura dello sviluppo, con il paradosso che essa viene ancora applicata in Germania, ma negata per altri paesi, tra cui l’Italia. Stiglitz non ha fatto altro che ripetere quanto ho continuamente chiesto da anni: il mandato della BCE deve essere ampliato negli obiettivi (lo sviluppo nella stabilità) e negli strumenti (intervento sul cambio estero dell’euro e funzioni da «prestatore di ultima istanza» anche sui titoli pubblici).

LO SCRITTO DI CIOCCA

Pochi giorni prima un illustre economista, Pierluigi Ciocca, già membro del Direttorio della Banca d’Italia, in un suo scritto su «Apertacontrada» aveva ribadito le stesse cose, sulla scia di quello che possiamo ormai definire una valanga di consensi a favore di una riforma dei contenuti del Trattato di Maastricht e seguenti. L’UE evolve invece verso l’attuazione del pareggio di bilancio (il fiscal compact) accompagnato da una convergenza forzata del debito pubblico verso il 60% dei PIL nazionali. In breve, si va programmando un vero disastro. La tesi di Stiglitz è che la scelta dell’euro è stata politica, ossia non è passata da una costruzione economico-razionale. Questa non si può considerare una risposta, perché politica vuol dire «governo» e tra scienza economica e scienza politica vi è stato sempre uno storico stretto collegamento per rendere il governo possibile, mentre questo in Europa è mancato.

LE DOMANDE DI LA MALFA

La Malfa ha rivolto a Stiglitz la domanda cruciale: se non vengono accettate le richieste di riforma che lui – e ormai molti altri – hanno chiesto, che cosa si deve fare? La risposta data dal Nobel è stata evasiva: ci sarà un costo da pagare. Ben lo sappiamo ma, in un afflato di coscienza, ha precisato che il costo non sarà così grave, come dimostra il caso dell’Argentina. Invece, nel corso degli interventi, è stata una gara nel diffondere terrore sul dopo euro, come unica giustificazione del non fare. È un po’ la storia di tutte le rivoluzioni alla quale segue il terrore e poi la restaurazione.

LA PROSPETTIVA NEFASTA

Quella europea è una rivoluzione moderna, apparentemente pacifica ma subdola. Le vittime non muoiono in modi violenti, ma economici, perdendo l’impresa e il lavoro o con aumenti delle tasse e riduzioni del welfare. In questi giorni sono apparsi lunghi articoli sul Sole 24 Ore sui danni di ciò che viene dopo e sulle perdite che avremmo se uscissimo dall’UE. Manca la precisazione che, per un principio imposto dalla Thatcher, i paesi hanno ciò che versano all’UE, ossia non si perde niente. Le perdite nette sono i contributi dati ai Fondi che ci dovrebbero salvare, che hanno gravato sul nostro bilancio pubblico per 56 miliardi, dieci volte la detassazione dei tanti sbandierati 80 euro a persona. Il calcolo esatto, che i «negazionisti» dovrebbero tenere presente, è quello presentato dal Censis di De Rita sul dare e avere dell’UE, dove si dimostra che non riusciamo neanche a riprenderci ciò che diamo per le spese ordinarie.

LA RETE IN CUI NON CADERE

Non resta che attendere il termidoro, ossia una data in cui ci riprenderemo le chiavi di casa; e auguriamoci che il sistema non volga verso una dittatura. L’insofferenza verso lo straccio di democrazia europea che pur sempre esiste cresce e le tentazioni di abbandonare quel poco che abbiamo, sono forti. Ripetiamo quindi, ancora una volta, la domanda cruciale: non basta riconoscere che l’Europa deve cambiare architettura e politica; occorre dare risposta al quesito di che cosa va fatto se questi cambiamenti non ci vengono dati. Chi la evade non ha diritto a governare e l’elettore è avvertito che non deve cadere nella loro rete.


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