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Afghanistan, storia di un Paese diviso

Quella che doveva essere la prima transizione democratica in Afghanistan rischia di trasformarsi in uno stallo e di innescare una crisi politica dalle conseguenze imprevedibili.

Mentre non si ferma l’offensiva dei talebani nel sud del Paese, il passaggio di consegne tra il presidente Hamid Karzai e il vincitore del ballottaggio del 14 giugno è offuscato da accuse di brogli e corruzione.

Ieri il candidato alla presidenza inizialmente dato per favorito, l’ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah, ha dichiarato che non accetterà alcuna decisione presa dalla commissione elettorale indipendente, che mercoledì dovrebbe annunciare i risultati preliminari del ballottaggio. La rottura definitiva è avvenuta dopo che la commissione ha respinto una lista di tredici richieste presentata da Abdullah per verificare la validità della tornata.

LE DIVISIONI

La commissione elettorale ha stimato che al ballottaggio si sono presentanti sette milioni di votanti, ovvero il 60% dei dodici milioni di aventi diritto, un dato contestato da Abdullah, secondo il quale il numero è stato gonfiato per favorire il suo avversario, l’ex ministro delle Finanze Ashraf Ghani. A sostegno della sua accusa, Abdullah ha presentato le registrazioni di alcune conversazioni in cui il capo della commissione elettorale, Zia Ul-Haq Amarkhail, sembra prendere accordi per riempire le urne con schede favorevoli a Ghani. Le dimissioni di Amarkhail e le smentite di Ghani non hanno fermato le proteste e venerdì migliaia di sostenitori di Abdullah si sono riversati nelle strade di Kabul per chiedere di fermare la conta dei voti.

BROGLI ELETTORALI

Abdullah, che aveva già lanciato accuse di brogli durante le elezioni del 2009, alle quali aveva partecipato come candidato indipendente, ha vinto il primo turno di aprile con il 45% dei voti, contro il 32% di Ghani. Per questo il rovesciamento avvenuto al ballottaggio, con un aumento del numero dei votanti nelle province dove Ghani è più forte, è segnato dall’ombra delle frodi che si allunga anche sullo stesso Karzai, accusato di voler favorire l’esponente della sua stessa etnia, i pashtun. I contrasti tra i candidati rischiano così di riaccendere le tensioni tra i due principali gruppi etnici del paese: i tagiki, che rappresentano il bacino elettorale di Abdullah, e i pashtun, schierati al fianco di Ghani.

DEBOLEZZE MILITARI

Tredici anni dopo l’invasione delle truppe statunitensi e la formazione del governo guidato da Karzai, le appartenenze etniche continuano a dividere l’Afghanistan. Approfittando del declino del sostegno militare della Nato e della debolezza delle forze di sicurezza afgane, la settimana scorsa circa ottocento talebani hanno lanciato un’offensiva nella provincia di Helmand, nel sud del paese, per riconquistare il territorio sotto il controllo del governo. Circa 40 civili sono stati uccisi e centinaia di persone sono state costrette alla fuga. In un attacco separato nella provincia centro-orientale di Ghazni, i ribelli hanno ucciso il capo della polizia e una delle sue guardie del corpo. In un clima segnato dalla corruzione dilagante e da una situazione della sicurezza critica, la comunità internazionale teme che la disputa elettorale possa assumere sempre più i contorni di uno scontro violento e trascinare il paese in una nuova guerra civile.

PAESE INSTABILE 

Chiunque sarà il vincitore di questa controversa tornata elettorale, si ritroverà tra le mani un paese instabile e frammentato. Il nuovo presidente dovrà gestire il progressivo ritiro delle truppe statunitensi entro la fine del 2016 e firmare l’Accordo di sicurezza bilaterale con Washington, a lungo procrastinato da Karzai. Il fallimento del voto potrebbe spingere i paesi donatori a diminuire il flusso degli aiuti e determinare un’ulteriore contrazione dell’economia afgana che, secondo i dati della Banca Mondiale, resta dipendente dal sostegno internazionale per il 47%. Quest’anno la crescita prevista è solo del 3,2%, contro il 14% degli anni precedenti, e la situazione potrebbe peggiorare con il ritiro degli statunitensi che nell’ultimo decennio hanno iniettato miliardi di dollari nell’economia afgana. Una transizione pacifica e demografica è l’unico modo per consentire agli afgani di ricostruire il proprio paese.

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