Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Tino Oldani apparsa su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
Il tempo è galantuomo. Da anni la Germania della signora Angela Merkel va ripetendo agli altri Paesi dell’Eurozona, soprattutto a quelli mediterranei, che devono fare i compiti a casa, mettersi in riga, fare riforme e sacrifici per uscire dalla crisi. Una ricetta sbagliata, che sommando l’austerità alla crisi economica ha portato alla recessione e alla deflazione. Che fosse un errore, ora lo ammettono un po’ tutti. Ma in Italia ben tre governi (Monti, Letta e ora Renzi) non hanno fatto altro che impegnarsi nei compiti a casa, da scolaretti ubbidienti a frau Merkel. E ben pochi, all’inizio, hanno osato mettere in dubbio la credibilità del pulpito da cui veniva la predica.
IL FENOMENO DEI DERIVATI
L’economista Paolo Savona, tra i primi al mondo a studiare il fenomeno dei derivati e delle sue conseguenze, già due anni fa ricordava che la prima banca tedesca, la Deutsche Bank, era tutt’altro che in salute, avendo la metà dei propri asset investiti in derivati, vale a dire in scommesse che potevano rivelarsi rovinose per il suo bilancio. L’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha svelato di recente che già nel 2011 le grandi banche tedesche e francesi avevano un’esposizione molto elevata, e perciò critica, verso Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda, pari al 40 per cento dell’esposizione di tutte le banche europee, mentre l’Italia era esposta solo per 5 per cento. Ragion per cui Tremonti si rifiutò di contribuire al Fondo salva-Stati (che era in realtà un salva-banche) nella misura del 18 per cento (quota della partecipazione italiana nel capitale Bce), e il governo guidato da Silvio Berlusconi ne pagò le conseguenze, con un rialzo manovrato dello spread, la cacciata con ignominia e l’immediata sostituzione con il governo tecnico di Monti, che eseguì alla lettera i diktat della Bce e di Berlino. Fu così che l’Italia, come ha rivelato qualche tempo fa il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, contribuì al salvataggio delle banche tedesche e francesi con 4 punti di pil, circa 60 miliardi di euro, frutto di un enorme salasso fiscale sulle famiglie e sulle imprese di casa nostra.
SALVATAGGIO NON SUFFICIENTE
Ora si scopre che quel salvataggio non è bastato. Anzi, la Deutsche Bank ha di nuovo un disperato bisogno di risorse fresche e il 18 maggio ha annunciato un aumento di capitale di 8 miliardi di euro, che si aggiunge ai due precedenti del 2010 (10,2 miliardi) e del 2013 (3 miliardi). Iniezioni di denaro enormi, che tuttavia non sembrano bastare se si considera che, deposta l’abituale spocchia, la prima banca tedesca ha accettato che l’emiro del Qatar aumenti al 6 per cento la sua quota azionaria, portando in dote altri 1,7 miliardi.
BANCHE MALMESSE
Un’altra grande banca europea piuttosto malmessa è il francese Crédit Agricole, che solo in Grecia ha perso 8 miliardi. E la debolezza delle banche tedesche e francesi è ormai così palese che anche il presidente della Bce, Mario Draghi, comincia a preoccuparsi. Da poco, come riferisce Camilla Conti in una documentata inchiesta sull’Espresso, sono iniziati gli stress test della Bce sulle prime 128 banche europee, e l’analisi delle qualità dei beni patrimoniali non sembra dare risultati rassicuranti. Tanto è vero che pochi giorni fa perfino il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, in passato tra i critici più duri dei Paesi mediterranei, ha messo le mani avanti con una ammissione che non ha precedenti: «Si punta il dito contro l’Italia, la Spagna, la Grecia, ma la Germania ha molto da fare». Un’invocazione d’aiuto, dopo l’abituale alterigia?
NUOVI PROFITTI
Le grandi banche tedesche e francesi, per rifarsi delle perdite, hanno dovuto andare in cerca di profitti al di fuori della loro giurisdizione. Ma i risultati, osserva l’inchiesta della Conti, sono stati disastrosi. «Fra titoli internet, subprime, Btp venduti ai minimi, Grecia, immobili spagnoli, le perdite di portafoglio tedesche dal 2000 a oggi sono state pari al 30% del pil nazionale» valuta Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos. «In pratica la Germania si è mangiata con le sue follie finanziarie cinque anni di surplus delle partite correnti». Sono dati che i leader politici italiani, a cominciare dal premier Matteo Renzi, farebbero bene ad annotarsi, per ricordarli a frau Merkel se mai, in uno dei prossimi vertici, la cancelliera dovesse ripetere la solita cantilena sui compiti da fare a casa. Ora è bene che li faccia lei, senza se e senza ma.
NON ESENTI DA CRITICHE
Intendiamoci, le banche italiane non sono affatto esenti da critiche. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ne ha elencate parecchie nella sua relazione di venerdì 30 maggio. I crediti a rischio, a causa della crisi che ha colpito le imprese debitrici, sono piuttosto elevati: 18 miliardi per Unicredit, 13 miliardi per Intesa Sanpaolo, circa 9 per il Monte Paschi. Anche per questo il sistema bancario nazionale dovrà fare fronte a 13 miliardi di aumenti di capitale se vorrà superare gli stress test della Bce. Ma la verità, per quanto paradossale, è che le banche italiane sono messe meglio di quelle tedesche, che hanno ben 200 miliardi di crediti a rischio, più altri 85 miliardi delle Sparkasse, le casse di risparmio dominate dalle clientele politiche. La conferma definitiva di questo scenario potrebbe venire dalle prossime misure della Bce, che Draghi ha annunciato per il 5 giugno con l’intento di rilanciare l’inflazione, rendere più scorrevole il credito verso le imprese, rilanciare gli investimenti e ridurre la disoccupazione. Vale a dire un’iniezione di almeno 500 miliardi nel sistema bancario europeo, ossigeno prezioso per tutte le grandi banche, ma soprattutto per quelle tedesche.