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Belinelli, gli Spurs e il basket multipolare

Il basket è uno sport semplice ma che va giovato con grande intelligenza. In effetti la pallacanestro ha bisogno di decisioni prese in fretta, capacità di intuire dove andranno la palla e il tuo compagno. Concetti portati ai massimi livelli dai San Antonio Spurs, la squadra che ha appena vinto le finali Nba per la quinta volta.

Una franchigia considerata magica, forse un pò naif, comunque diversa dalle altre 29 iscritte alle lega professionista del basket americano. Una fascinazione che non deriva solo da una pallacanestro giocata in maniera efficace e veloce ma piuttosto dall’unicità delle storie e del modo di stare in campo degli uomini in canotta nero-argento. E da quel signore seduto in panchina. Gregg Popovich, è una figura di culto per gli appassionati di pallacanestro. Un uomo in grado di tirare fuori il meglio dai suoi giocatori con durezza e intransigenza ma capace anche di instaurare legami profondi. Nonostante i metodi militareschi (retaggio dell’accademia militare da cui è uscito nel 1970) e le storiche urla in faccia dopo un blocco o un movimento difensivo troppo esitante, i giocatori lo venerano. L’allenatore degli Spurs ha l’attitudine al comando, il carisma e la sicurezza di un capo di governo. Uno statista prestato alla pallacanestro. Figlio di padre serbo e madre croata, conoscitore della storia e della politica internazionale, ha sviluppato un talento speciale per l’andare a pescare talenti in paesi dove il basket, prima che l’Nba diventasse un brand globalmente appetibile, non era lo sport di riferimento. Nel roster di San Antonio ci sono otto giocatori non americani. Una multinazionale dello sport che si serve di talenti arrivati da lontanissimo ma soprattutto che prima dello sbarco in Texas faticavano a lasciare tracce significative sul parquet. Moltissimi di questi giocatori hanno storie interessanti , dal gusto esotico oppure epico. Qualcuna addirittura da film. E infatti l’aborigeno australiano Patty Mills sarà il protagonista del documentario “For my people”. Oltre alla guardia, star a sorpresa della Finals 2014, ci sono tanti altri giocatori che fanno degli Spurs una potenza globale dello sport composta da uomini che hanno imparato a trasformare le loro particolarità culturali, caratteriali e tecniche in risorse da mettere al servizio del gioco perfetto ideato da Popovich. Tutte storie da periferia. Quella del basket ma anche quella del mondo. Atleti con un background che difficilmente si concilia con il prototipo del campione Nba. Tony Parker è un francese nato in Belgio pescato in un campionato europeo di seconda fascia. Il suo amico e connazionale Boris Diaw, è stato cacciato dai Phoenix Suns perché troppo grasso. L’argentino Manu Ginobili è partito da Reggio Calabria per fare della “garra” del suo popolo uno stile di gioco e un temperamento che gli hanno assicurato il rispetto nella lega già globale ma dominata ancora dalla filosofia dei neri del ghetto che attraverso il basket duro avevano sconfitto la povertà e guai ancora peggiori. L’argentino divenuto grande giocatore in Italia non ha problemi a sfornare assist per il brasiliano Tiago Splitter. Durante la serie finale dello scorso anno, sempre contro i Miami Heat, il centro che ha giocato in Spagna si era preso una stoppata in faccia da Lebron James. L’evento tecnico ma anche emotivo che aveva lanciato gli Heat verso il titolo 2013. Dodici mesi dopo Splitter è diventato un giocatore con una dimensione in più, capace di fare cose diverse da quello che ti aspetteresti da un pivot di due metri. I suoi precisissimi passaggi sono stati una evoluzione tecnica sorprendente e rappresentano al meglio la caratteristica migliore dei giocatori di Popovich. Nascondere i propri limiti, renderli marginali migliorando aspetti del proprio gioco che prima non erano stati esplorati. C’è qualcosa di atipico anche il Tim Duncan. Uomo franchigia, campione silenzioso e low profile. Una figura quasi sgualcita dalla perseveranza con cui ha inseguito il successo sportivo. Nessuno ha mai vinto due anelli di campione Nba mettendo più anni tra il primo e il secondo successo (1999 e 2014). Anche il pupillo di Popovich è un personaggio esotico. Duncan e americano ma è nato a Saint Croix, nelle Isole Vergini. Il suo essere caraibico lo intuisci dalla movenze sinuose che utilizza per aggirare l’avversario usandolo come un perno per far roteare il suo corpo. Questa l’unica concessione ai natali caraibici, la determinazione e l’applicazione in allenamento sono piuttosto teutoniche. E poi c’è Marco Belinelli. Il primo italiano a vincere il campionato di basket americano. Il ragazzo nato a San Giovanni in Persiceto, paese di 27mila abitanti in provincia di Bologna. Prima di entrare a far parte della banda di Mister Pop è stato sballottato in giro per gli Stati Uniti (e il Canada). Golden State, Toronto, New Orleans, Chicago. Tutte tappe che  gli sono servite ad affinare la feroce determinazione necessaria a diventare un giocatore di livello. Ogni allenatore e compagno (compreso Chris Paul, miglior palymaker della Nba) gli riconoscono la feroce voglia che mette nel lavoro in palestra e sul campo Anche Belinelli è una intuizione dello staff degli Spurs. Hanno capito che Marco poteva integrarsi in quel contesto di gioco. Determinato e diverso. Non solo un tiratore da tre ma uno che capisce il gioco.

La squadra di San Antonio è fatta da giocatori con culture e modi di vedere il basket che vengono da lontano, quasi marginali sul planisfero della pallacanestro mondiale. Una franchigia multietnica edificata su giocatori di pallacanestro che hanno miscelato culture e attitudini sportive diverse. Eppure nel storia di successo dei San Antonio Spurs non c’è solo questa forte impronta multipolare. C’è qualcosa di profondamente americano. Lo spirito della nazione del destino manifesto, l’attitudine protestante che si sostanzia nella ricerca del successo lavorativo ed economico . Gli Spurs sono profondamente “born in the Usa”. Popovich ha instillato nei suoi il desiderio costante di esplorare i propri limiti per aggirarli. Lavorare duro e rinnovarsi per prendersi la rivincita su Lebron James e sugli anni che passano. La franchigia guidata dal general manager Robert Buford è un modello di successo. Questo mix di culture ed esperienze diverse ha creato una squadra vincente perché diversa e speciale.

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