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Vi spiego perché l’Europa non ha cambiato verso (checché ne dica Renzi)

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La prossima Commissione Europea, ed ancor più il suo presidente, saranno altro rispetto al passato: a Ypres, celebrando il centenario della Prima Guerra mondiale, i leader europei hanno rotto quella cortina di ipocrisia che ha tradizionalmente avvolto la nomina di questi organi, considerati astrattamente apartitici ed anazionali. Sono sempre stati scelti al termine di mercanteggiamenti infiniti, per tener conti di equilibri i più complessi, ma venivano presentati agli occhi del mondo come assolutamente autonomi, indipendenti da tutto e da tutti, capaci di individuare da soli i destini dell’Unione e le sue politiche.

UNA LUNGA AGENDA

Stavolta non è più così, e non solo perché anche il Parlamento europeo dovrà votare sul candidato alla Presidenza della Commissione, ma perché chiunque sarà nominato, dovrà rispettare una lunga Agenda. Un libro dei sogni che l’Italia ha cercato di integrare con precisi impegni sulle questioni che le stanno più a cuore. La verità è che, una volta accettate le regole del Fiscal Compact, che è stato approvato come il Trattato di Maastricht sotto la minaccia di una crisi internazionale, mettere le toppe è sempre difficile.

I NODI IRRISOLTI

Quando il Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi ha imposto agli altri partner di cambiare metodo, di discutere del programma di attività dell’Unione prima di prendere in considerazione le candidature, l’incarico è stato affidato al presidente uscente, Herman Van Rompuy, che ha preparato un’”Agenda strategica per l’Unione europea in tempi di cambiamento”. Doveva iniziare un inedito processo di definizione delle priorità, degli obiettivi e dei vincoli al cui interno si dovrà muovere l’Unione europea nei prossimi anni. La delusione era scontata. Nessuna delle grandi questioni che hanno animato la campagna per il rinnovo del Parlamento europeo è stata minimamente toccata: dalla estensione delle funzioni della Banca centrale europea, per farne un prestatore di ultima istanza con poteri sul cambio dell’euro verso le altre valute, alla mutualizzazione dei debiti pubblici; dalla possibilità di uscire dall’euro in modo ordinato alla convergenza delle politiche tributarie, eliminando i tanti paradisi legali che prosperano nell’Unione, dal Lussemburgo all’Irlanda, per via di regimi fiscali di eccessivo favore.

LA POSIZIONE ITALIANA

L’Italia ha fatto conoscere la sua posizione trasmettendo un documento (“A fresh start for the European Union”) focalizzato su quattro punti. Prima questione: il rinnovato focus sulle riforme strutturali e gli investimenti, necessari entrambi per riprendere la strada della crescita e dell’occupazione, implica la necessità di verificare se un qualche cambiamento è necessario nelle clausole di flessibilità previste dal Fiscal Compact, se non nelle sue stesse previsioni, al fine di interpretarle in modo meno restrittivo. Occorre renderle applicabili per tener conto degli sforzi riformatori, e dunque anche quando non sia in corso una grave recessione. Nelle trattative, la richiesta italiana si è altresì focalizzata sulla possibilità di scomputare dal deficit congiunturale ammesso dal Fiscal Compact le somme necessarie al cofinanziamento degli investimenti previsti dai Fondi comunitari e al pagamento dei crediti commerciali maturati dalle imprese verso le Pubbliche amministrazioni per le spese di parte capitale. La seconda proposta mirava a costituire un apposito Fondo Europeo per gli Investimenti, capace di operare a leva emettendo obbligazioni sul mercato (“project bonds”), sulla base di una dotazione finanziaria fornita dal bilancio europeo e di un capitale versato di 10 miliardi di euro, affiancando così la BEI. In terzo luogo, si rappresentava la necessità di un migliore coordinamento delle politiche macroeconomiche, introducendo stabilizzatori automatici volti ad eviti divergenze eccessive: in particolare sarebbe necessario un sistema comune di assicurazione contro la disoccupazione. Ciò contribuirebbe a rendere più omogenei i processi di crescita ed eviterebbe sia gli shock sociali che conseguono alle crisi economiche sia sistemi di trasferimenti compensativi dai Paesi più floridi a quelli più poveri. L’ultima questione era di politica estera: Bruxelles non ha nessuna delega a trattare in esclusiva con gli Usa per la definizione della Trans Atlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), perché i contatti devono continuare ad essere tenuti dai più alti livelli delle istanze politiche e regionali. Di queste proposte è emerso ben poco, anche perché il documento che le conteneva non è stato consegnato in occasione delle comunicazioni alle Camere che il Presidente Renzi ha svolto lo scorso 24 giugno.

IL METODO BRUXELLES

Nonostante le insistenze per inserire nel documento garanzie precise e vincoli cogenti, l’Agenda è rimasta il classico esempio del metodo bruxellese: si approvano documenti che partono da considerazioni solidissime, perseguono obiettivi condivisibilissimi, ma che non approdano a nulla. Basta leggere i paragrafi dedicati a “Lavoro, crescita e competitività”; “Centralità e protezione dei cittadini”, “Libertà, sicurezza e giustizia” per constatare che si tratta dell’ennesima enunciazione di principi, mentre i veri paletti ed i pochi impegni cogenti sono dissimulati tra le pieghe di cotanta retorica.

IL FISCAL COMPACT

Il paletto del Fiscal Compact, in primo luogo, sta bene dov’è: tutte le prospettive di crescita, di investimenti e di occupazione devono basarsi sugli sforzi di consolidamento realizzati finora e sulle regole del Patto di Stabilità e di Crescita, utilizzando le clausole di flessibilità che sono già previste (“existing”) al suo interno (“built-in”). Che si possa fare un “pieno” ovvero un “buon” uso delle clausole, come risulta nelle successive versioni dell’Agenda, davvero cambia molto poco.

UN LUOGO IN CUI INVESTIRE

Seconda questione: occorre rafforzare l’attrattività globale dell’Unione, come luogo in cui investire, attraverso il completamento delle negoziazioni relative agli accordi sul commercio, in uno spirito di mutuo e reciproco beneficio, incluso il TTIP, entro il 2015. La locuzione utilizzata non è affatto chiara, dando adito alla ipotesi che in realtà la negoziazione riguardi il TISA (Trade in Services Agreement) con l’annesso relativo ai Servizi Finanziari. Sono accordi di cui ben poco si sa e di cui nessuno ha mai discusso. Scrivendo che nelle negoziazioni è “incluso” il TTIP, serve per dare come acquisito un basket negoziale più ampio di cui mai si era parlato prima in sedi ufficiali. Non per caso, il TISA bypasserebbe tutte le sedi tradizionali, come il Wto, per creare invece una rete più stretta, che esclude i Paesi Brics, mentre accomuna i partner americani delle due sponde oceaniche. Mentre l’unilateralismo americano si rinnova, la Cina e la Russia escono dal tavolo dei negoziati.

LA DIPENDENZA ENERGETICA

Il terzo aspetto è quello della riduzione della dipendenza energetica, “inclusa” quella dal gas russo. Il tema è dichiaratamente geopolitico, e come tale viene posto. Resta una enorme asimmetria, che non viene neppure sollevata: dei 167 miliardi di metri cubi di gas russo importato dall’Europa, appena 82,3 miliardi passano dall’Ucraina. E’ il North Stream a fare la differenza: alla Germania arriva così il 24% del totale delle esportazioni russe di gas. Sarebbe stato necessario chiarire chi e come deve ridurre la dipendenza energetica dalla Russia: sbarrare la porta solo al South Stream, mettendo in pericolo anche gli approvvigionamenti di gas russo che passano dall’Ucraina, creerebbe una asimmetria pericolosa per l’Italia, che è già penalizzata dalla crisi libica. Nel silenzio, varrebbe il principio dello status quo: chi il gas russo lo riceve direttamente, con il North Stream, se lo tiene. Gli altri, tra cui l’Italia, si dovranno arrangiare.

NESSUN PASSO IN AVANTI

Sulla flessibilità nell’applicazione del Fiscal Compact ci è stato concesso il minimo indispensabile, giusto quello per non tornare a casa a mani vuote: il quadro prospettico è ingessato sul rigore, non c’è nessun meccanismo automatico di riequilibrio macroeconomico e rimangono tutte le aberrazioni di un mercato interno che consente di fare profitti destreggiandosi tra legislazioni di favore. Sulla questione dei migranti, rimarremo per chissà quanto tempo ancora a fare da scialuppa di salvataggio per i tanti poveri disperati in fuga dalla fame e dalle guerre: di iniziative avanzate, per intervenire nei Paesi del nord Africa, a partire dalla Libia che pure ci è ad un tiro di schioppo, non se ne parla affatto. Sulla questione dell’energia, l’Europa stipula accordi di libero commercio con la Ucraina, e di amicizia e buon vicinato con la Moldova e la Georgia. Di rapporti con la Libia, ancora una volta non se ne parla. Eppure l’Italia aveva un Trattato di speciale amicizia, finito chissà dove dopo la crisi del regime di Gheddafi.

Inutile protestare: “Caron, non ti crucciare. Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare” (Dante, Inferno, III 95-96).



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