Fatta, forse, eccezione per le matricole del voto, che potevano essere eccitate per la loro «prima volta», tutti gli altri elettori di parte centrista, e di qualsiasi età, entrando in cabina e osservando attentamente la copiosa varietà dei simboli richiamantisi a formazioni di centro, hanno come avvertito un brivido di sbigottimento, quasi increduli che, in una prova pure non esaltante come quella europea, la frammentazione dei centristi fosse così marcata e persino ingiustificata.
Peggio è accaduto laddove si votava anche per le amministrazioni locali da rinnovare, giacché il numero dei simboli sulla scheda era addirittura raddoppiato, se non triplicato, rispetto alle candidature europee. E parecchi elettori centristi si sono persino chiesti se non avessero scelto meglio quei loro amici che, scandalizzati dalla penosa disaggregazione del campo dei centristi, avevano già deciso di non recarsi neppure ai seggi, nell’illusione di poter sfogare nell’astensionismo il loro rifiuto a farsi coinvolgere in divisioni di solito dovute al prevalere dell’ambizione personale sulla responsabilità collettiva e, comunque, per richiamare l’attenzione dei capipartito sulla loro protesta verso una politica senza senso, ferma alle tribalità delle meschine lotte per un potere effimero.
Tuttavia non mancava un clima esterno, alla vita dei seggi e ancor più in quella emergente da una campagna elettorale – televisiva, giornalistica e fatta di tanti piccoli incontri quasi catacombali – che, fra surrealità, timori sul futuro prossimo, insoddisfazioni generali ma di vario segno, faceva presagire che ci si potesse trovare dinanzi ad un passaggio epocale: non di fronte a una votazione routinaria e tranquilla, ma a qualcosa di eclatante, di straordinario, di inimmaginabile che, quanto meno, evidenziasse l’errore di un astensionismo rinunciatario.
Dopo una settimana di riflessioni – nelle quali hanno finito col prevalere le autocritiche dovute a buonsenso sulle spocchiose e immature pretese di valorosi piccoli capi che non capivano ancora che il voto non è un tributo dovuto ma una conquista da ottenere con dedizione e sacrifici continui e sinceri -, sul campo sgangherato del centro-destra è sceso un raggio di sole che ha un po’ rasserenato quella che cominciava ad apparire una deriva suicida di fronte al terrificante predominio di una sinistra meticcia ma da non sottostimare quanto a tatticismi di tipo conservatore. Si è come, d’improvviso, avuta una scossa.
Probabilmente suscitata anche da una campagna di Libero che, per giorni e giorni, ha dedicato spazio a potenziali grandi elettori finora invisibili, le cui ragioni venivano raccolte a testimonianza che il centro-destra non è un peso sostenuto solo da vecchietti, come sprovvedutamente insinuato da Beppe Grillo, il grande perdente del 25 maggio. Ma è stata soprattutto la consapevolezza, accompagnata da saggezza, di Berlusconi, Casini e Alfano a far uscire le piccole, sordide beghe di clericale memoria remota, dal pantano d’una politica di cui, tutti, ci si deve riappropriare: con discernimento, lealtà, senso degli interessi nazionali.
Non si tratta di tornare a parlarsi con franchezza, come fa Fitto, che non è un rottamatore terronico, ma un promotore di consensi meritati. E neppure si può evocare una rifondazione grossolana che implichi una riedizione del vecchio modello di partito, una rifondazione di tipo ideologico, cioè regressivo. Né ha senso compiuto ridividersi fra chi implora come salvifiche le primarie indiscriminate, contrapponendogli i congressi (che però, negli ultimi anni, sono stati convention, non palestre di idee sulle quali, con votazioni segrete, dalle piccole comunità al vertice nazionale, si stabiliscono con certezza i confini fra maggioranza e minoranze: con mozioni differenziate; proposte politicamente significanti, comprensibili e condivisibili da tradizionali e nuovi elettori; candidati di valore personale non solo perché meglio ammanigliati in certi territori e sconosciuti in altri con maggiore peso politico).
Tanto per dire, i clubs di Forza Italia recentemente coniati da Berlusconi, se non hanno dato voti, non è perché erano troppo recenti e poco funzionanti; ma perché non sono stati vissuti come potenziale ceto politico, preparato sia nella lotta interna, sia soprattutto nel confronto quotidiano con gli avversari e con una preparazione sufficiente ad essere presenti e vigili nei seggi elettorali: dove si continuano a registrare antiche tendenze al broglio, alla manipolazione delle schede, agli annullamenti ingiustificati, alle schede bianche trasformate in voti assegnati. Se una carenza c’è stata, nel campo del centro-destra, purtroppo ormai sistematica, è l’impreparazione tecnica al controllo di un corretto e libero esercizio del voto; con presidenti di seggio e scrutatori e rappresentanti di lista impreparati a cogliere le manovre truffaldine altrui, che hanno fatto perdere anche possibilità di ballottaggi con le sinistre, quasi ovunque vittoriose, anche con l’aiutino tradizionale.
E meno male che s’è trattato di elezioni europee e non politiche. Però, laddove si votava anche per le amministrative, questo tipo di carenza – che è fondamentale, non incidentale -, si è avvertito ancora di più; sollecitando i centristi a darsi una mossa; a non esporsi al massacro per irresponsabile faciloneria, senza sapere difendere neppure i consensi reali ottenuti.
Conclusione. Sia che si guardi allo spirito del ’94, sia che si badi al frazionamento attuale del centro-destra e ai pericoli futuri se non si ricorre ad una qualche formula federativa che faccia diventare unitaria la contrapposizione – politica, non ideologica – ad una sinistra che non ha vinto per merito bensì per demerito e spirito suicida altrui, rischiasi di continuare a pestare l’aria nel mortaio e di farsi infilzare, uno per uno, per incoscienza dall’autoritarismo che va impadronendosi del paese senza colpo ferire.