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Disfatta azzurra: è mancata la fame

Assistendo inebetito alla mesta uscita degli azzurri dal mondiale carioca, mi veniva in mente il titolo di un famoso romanzo di Knut Hamsun, Fame. Nel capolavoro dello scrittore norvegese la fame domina incontrastata la vita del protagonista, fino a spingerlo sull’orlo della pazzia. Nel caso della nazionale, invece, è stata la mancanza di fame la vera causa della sconfitta. Inutile girarci attorno o cercare alibi e scuse, e tanto meno accanirsi  – come puntualmente avviene in questi frangenti – nella caccia al colpevole da additare al pubblico ludibrio. La verità vera è che i nostri giocatori ( e non solo loro) non hanno fame. Non hanno più fame. Sono appagati, hanno tutto quello che corrisponde nell’immaginario collettivo al successo: fama, soldi, belle donne, belle macchine. Ma non hanno l’unica cosa che davvero conta nello sport: la fame. Ovvero la voglia di rimettersi sempre in gioco, di affrontare ogni gara come fosse una finale, di lottare e vincere per il gusto di lottare e vincere, battere l’avversario e arrivare primi. La fame è rabbia, è lucida determinazione che ti spinge ad andare avanti, a migliorare sempre, a non sperare che il tuo avversario faccia un passo falso ma a cercare tu di giocare meglio di lui. Soprattutto, la fame è fame di nuove vittorie, nuove sfide, nuovi traguardi. A veder giocare i nostri connazionali, al contrario, pareva di assistere ad una partitella da oratorio, o alla classicissima “scapoli-ammogliati”. Lingue di fuori, gambe flosce, ritmo da bradipo assonnato, totale incapacità di imporre il proprio gioco: fatta eccezione per la partita inaugurale con l’Inghilterra, questo è stata l’Italia azzurra contro il Costarica e l’Uruguay. Poi certo, l’arbitro ci ha messo il carico da dodici con l’assurda espulsione di Marchisio e la “svista” del morso a Chiellini (aggravato dal fatto che non era la prima volta, speriamo almeno che sia l’ultima). Ma resta il fatto che se non corri e non tiri in porta, o hai una tecnica sopraffina e un fraseggio tale da stordire l’avversario – cosa che non mi sembra appannaggio degli azzurri – oppure difficilmente vinci. E infatti abbiamo perso. Senza che in due partite i nostri abbiano fatto un tiro in porta degno di questo nome. No, dico: ma ci rendiamo conto di quanto corrono e di come giocano squadre pur meno blasonate e anche tecnicamente inferiori alla nostra? Forse non vinceranno mai un mondiale, ma almeno puoi dire di aver visto una squadra giocare a calcio. Il Ghana, per dirne una, ha costretto al pareggio la Germania, uno squadrone da paura. E se avesse vinto non avrebbe rubato nulla. Come hanno fatto? Correvano come pazzi, e lottavano su ogni palla come forsennati, senza alcun timore reverenziale nei confronti dei colossi tedeschi. E lasciamo stare che gli africani sarebbero più abituati di noi a certi climi e temperature. Puttanate. Se non corri al mondiale ma quando vuoi correre? E sudare, e lottare fino a sputare l’anima? Di nuovo, è la fame la molla. O come dicono gli esperti, la giusta motivazione. Ma la fame – e lo dico senza alcun intento assolutorio nei confronti di Prandelli, che comunque vada ha dato un esempio di onestà intellettuale di grandissimo valore – non te la può dare nessuno. O ce l’hai o non ce l’hai. Certo, il gran circo del calcio – a tutti i livelli – un aiuto lo può dare. Perché è chiaro che se vivi in un certo ambiente è più facile risentire del clima che respiri. E allora è forse è il caso, senza indulgere al solito populismo a un tanto al chilo che già dilaga, di ripensare un po’ tutto il sistema, e di tornare a fare del calcio quello che in fondo è, e resta: il più bello sport del mondo.


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