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Divorzio breve: misura sbagliata al momento sbagliato

Parlamento Italiano, primavera 2014. Governo Renzi. Suona curioso che in situazioni di difficoltà in cui sono richiesti sforzi comuni volti ad emanare provvedimenti efficaci, piuttosto che riforme strutturali rispetto a delle priorità di riconosciuta evidenza per il Paese, l’attenzione pubblica si rivolga ad una misura che nulla ha a che vedere con dette misure prioritarie, per la sua irrilevanza (nel migliore dei casi) oppure per la sua dannosità (come nel caso di specie).

Nei giorni scorsi, su iniziativa parlamentare e dopo un tentativo attuato 9 anni fa, il cd. “divorzio breve” è stato approvato dalla Camera dei Deputati e dovrà essere confermato al Senato prima di diventare legge dello Stato. Basteranno 12 mesi per sciogliere una famiglia, 6 nel caso la richiesta sia consensuale. Divorziare diventa più facile, in una società – per dirla alla Bauman – sempre più liquida. Più facile divorziare che avviare un impresa.

Un plebiscito. Alla fine hanno votato contro il divorzio breve soltanto 30 deputati, in ordine sparso. L’applauso finale, dopo la votazione quasi unanime, appunto, suona come un paradosso. Che cosa ci sia di entusiasmante in una legge che accelera il fallimento della cellula base della società, l’unico vero ammortizzatore sociale caratterizzato da cooperazione e competizione, è difficile da vedere, a meno che non si affermi esplicitamente il dominio assoluto dell’individuo e dei suoi desideri sulla famiglia, e sui suoi membri più deboli, i figli e a volte le mogli.

Curioso e paradossale. Nei giorni in cui viene resa pubblica la notizia di un tasso di disoccupazione giovanile che tocca il massimo storico (46%), il Parlamento si preoccupa di approvare una legge finalizzata a disgregare ulteriormente ed in modo più rapido quello che rappresenta il punto di partenza ma anche il punto di arrivo di un giovane che si affaccia al mondo del lavoro. Nessuna retorica, nessuna demagogia, nessuna “valutazione” di natura morale (e ci mancherebbe altro…), ma solo fatti inequivocabili.

Se le riforme vanno fatte, queste vanno realizzate in un contesto che abbia un ordine ed una struttura. E determinate strutture, specialmente quelle che vanno a vantaggio della società sotto più aspetti (incluso quello economico), vanno tutelate e valorizzate dallo Stato, non svilite. Stesso discorso vale per degli istituti civilistici come il matrimonio che costruiscono e definiscono una realtà (la famiglia) che è ordinata (per ruoli, compiti), aggregante (per le dinamiche di ogni tipo che viene a creare), e proprio per questo rappresenta a sua volta una micro-società. Nel naturale e imprescindibile rispetto verso l’impostazione culturale che ciascuno ha e che trasmette ai propri discendenti, trovo tuttavia inconfutabile il fatto che la realtà familiare, debitamente tutelata da istituti saldi e da norme di protezione e sostegno, vada a beneficio della società stessa.

Come ha ricordato in passato più volte il Prof. Francesco D’Agostino, il diritto ha il dovere di garantire l’ordine delle generazioni. Il matrimonio è l’istituto preposto a detto fine, è un istituto “forte”, perché alla radice del matrimonio c’è la rinuncia al narcisismo individuale e l’accettazione del coniugio. Ecco perché il “matrimonio debole” (suffragato da un divorzio breve….) è una contraddizione in termini. O il matrimonio è giuridicamente forte come istituto, o è una contraddizione in se stesso.

Proprio adesso, in una fase di “afflato riformatore” tanto auspicato, risulta singolare che il Parlamento non abbia saputo trovare nessuna misura più opportuna di quella finalizzata a sfaldare e mortificare ulteriormente un istituto che deve stimolare all’unione e alla costruzione, non rappresentarne una comoda opzione.

Precisa strategia culturale o ingenua (e dannosa) battaglia di “libertà”?



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