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Fiat, ecco che cosa ha confessato Marchionne

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il cameo di Riccardo Ruggeri apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Ammiro Sergio Marchionne per il suo modo di esprimersi, freddo, secco, sintetico. Con la locuzione «no profit, no money» chiude da Venezia la trattativa con i Sindacati italiani sul contratto Fiat Auto: non si possono dare premi se l’azienda perde. Principio sacrosanto, se fa parte di una politica dei rapporti sindacali erga omnes, una battuta da banale negoziatore in caso contrario. Non si riesce infatti a capire come un aumento di 150 sia ammissibile, uno di 200 una sciagura. Curioso pure l’attacco che ha fatto con un certo livore ai tedeschi. Si riferiva a quelli che fanno politica o a quelli che fanno le auto?

Ma la notizia non è solo questa, ma anche che Fiat Auto (si intende Emea) «perde», per la prima volta (incredibile ma vero) lo si dice ufficialmente. Ricordiamo che, in passato, Marchionne si era sempre rifiutato di «disaggregare in bilancio» le perdite-utili per paese di insediamento. Dopo 10 anni di sua gestione, al netto di Chrysler che è una cosa a sé, sappiamo così di straforo, che Fiat Auto perde quattrini (che perdesse quote di mercato in Italia e in Europa lo sapevamo dalle statistiche ufficiali). Malgrado ciò, gran parte degli analisti lo avevano descritto come il Mandrake del business dell’auto che, pur avendo dovuto subire in Italia lo strapotere sindacale e il consociativismo, era riuscito a spazzare via sia la Fiom che la stessa Confindustria, e portare così a casa risultati importanti. E in termini di sua immagine nel mondo politico-sindacali così è stato, mentre in termini di business di Fiat Auto, no, e ora lo sappiamo ufficialmente.

C’era allora un’infima minoranza di analisti, non politici ma di business, che prevedevano invece una progressiva, drammatica crisi di Fiat Auto e dei suoi marchi, semplicemente per la mancanza dei parametri minimi per fare business, non certo per vincoli esterni: quattrini, prodotti, reti, management. È stato facile registrare che: a) non venivano seguiti i cicli di rinnovo; b) non si investiva in nuovi modelli; c) non si facevano aumenti di capitale, causa non disponibilità degli azionisti di riferimento; d) gli otto piani industriali, che Fiat Auto produceva al ritmo di uno all’anno, non hanno mai avuto riscontri positivi (Marco Cobianchi ci ha scritto un libro, puntuale e puntuto).

Per questi analisti il destino di Fiat Auto e dei suoi marchi era segnato, e lo era in termini strutturali. Curioso che i sindacati bianco-gialli filo azienda abbiano finto per anni di non capirlo, ma, prima o dopo, le leggi del business dell’auto presentano il conto. Il momento è arrivato. Ed è anche il momento di chiedersi quanta credibilità abbia il ritornello «non si chiuderà nessun stabilimento italiano, tutti i dipendenti torneranno al lavoro». Gli otto piani di cui sopra lo ripetevano in modo ossessivo (scandaloso fu Fabbrica Italia) ma non si verificavano mai, e nel frattempo si usufruivano imponenti «finanziamenti» di ammortizzatori sociali.

Finalmente Marchionne è stato sincero: «Fiat Auto in Europa non fa profitti (termine elegante per dire «perde quattrini in modo strutturale»), quindi distribuire soldi senza guadagnarli significa aumentare i debiti». Bene, ora noi investitori di Fiat Auto vorremmo sapere anche come stanno le cose in termini di capacità produttive italiane, prima che lo chiedano i nuovi investitori di FCA, in occasione dell’Ipo. E, anche come cittadini italiani.

Qualche mese fa, Marchionne ha fatto il 9° piano di Fiat Auto o il 1° di FCA, quello a cui farà riferimento il mercato nella prossima Ipo. Esso si basa su alcune assumption (che devono essere veritiere) e su due scommesse: la Cina e l’Alfa Romeo (400 mila/anno nel segmento premium). Il mercato lo valuterà, e la borsa certificherà la sua credibilità. Auguriamogli ogni fortuna, ne ha tanto bisogno.

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