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Ecco il fisco che vorrei. Parla Daniele Capezzone

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’intervista di Goffredo Pistelli apparsa su Italia Oggi, il giornale diretto da Pierluigi Magnaschi

Lui, il più antipatico del Pdl, come diceva qualcuno, oggi forzista, Daniele Capezzone, romano, classe 1972, ci crede ancora: Forza Italia può ripartire. E non lo dice per dire: col metodo e la passione tipica di chi è stato radicale, pochi giorni dopo la disfatta del 25 maggio, aveva già pronto un libro con idee, tutt’altro che banali, per ricominciare dalla rivoluzione liberale. Quella “ribaltonata”, ed abortita, nel 1994, dimenticata nel quinquennio 2001-2006, e neppure tentata nel Berlusconi IV, dal 2008 al 2011, anche perché l’Europa fischiò la fine anzitempo. Il libro, La rivincita. Software liberale per tornare in partita, edito da Datamedia, è un ebook, e si può acquistare online, per 3,99 euro, anche dal sito danielecapezzone.it.

Capezzone, queste 196 pagine sono venute alla luce proprio dopo la disfatta azzurra alle europee: significa che lei aveva già visto e previsto…
Se si può usare un ossimoro, questo libro è sì un instant book, per cogliere, per così dire, un elemento d’attualità non simpatico e cioè quello della sconfitta elettorale, ma guarda anche lontano, cioè a come uscire da questa situazione. E non con escamotage o giustificazioni ma con un po’ di visione.

Capezzone, lei, i termini della sconfitta, li richiama tutti già nell’introduzione: 4,6 milioni di voti, contro i 7,3 di un anno fa, contro, ancora, i 13,6 del 2008, col Pdl all’apice. Basterà la visione?
Bisogna ripartire dal fare cose. Innanzitutto ripartire dalle idee. Evitare cioè di fare quello che la sinistra ha fatto, per 15 anni.

Vale a dire?
Riunire più segretari di partito in stanze fumose, ricercando l’unità sostanzialmente contro Silvio Berlusconi. Una strategia perdente, lo si è visto.

La seconda?
Ripartire dalle idee liberali. Il problema di Forza Italia è aver sciupato l’attenzione di milioni di elettori, professionisti, imprenditori, lavoratori autonomi che avevano creduto nel suo programma.

Dove sono andati?
Dalle analisi che abbiamo visto, a cominciare dai flussi dell’Istituto Cattaneo, quei voti non si sono trasferiti sul Pd, sono andati sull’astensione, si sono messi in un’anticamera e decideranno sull’offerta politica prossima ventura.

I flussi mostrerebbero alcune centinaia di migliaia di voti dall’area moderata al Pd renziano e non un esodo. Però lei, prima, richiamava la strategia perdente della sinistra, quella dell’ossessione berlusconiana. Ora, però, dall’altra parte c’è un signore, Matteo Renzi appunto, che ha più del 40% dei voti.
Il fenomeno Renzi va guardato nella sua complessità. Non riconoscere la sua vittoria sarebbe sciocco. Siamo dinnanzi a un personaggio che, diversamente dai predecessori e per suo eclusivo merito, ha saputo cambiare completamente la prospettiva in quell’area, cioè ha giocato la carta, berlusconiana, del rapporto diretto con l’elettorato. Da quelle stanze fumose, Renzi è uscito, ha scelto il campo aperto, ha assecondato la cosiddetta “vocazione maggioritaria”, ha capito che, con quella che io chiamo “referendizzazione del voto”, c’è un consenso fluido, capace di spostarsi in poco tempo. E c’è anche un altro aspetto, del premier, che va riconosciuto…

Quale?
E’ depositario di un capitale di speranza che è tutto suo.

Lo si è visto nei ballottaggi.
Sicuramente. E, anche se ha preso un milione di voti in meno rispetto a Walter Veltroni nel 2008, ha fatto il pieno. Anche perché noi abbiamo fatto il nostro vuoto. Il problema siamo noi, intendiamoci.

Ora, lei scrive, Renzi deve mantenere le promesse. Come dire, lo voglio vedere…
Infatti c’è già stato un decalage, uno scarto, una distanza molto forte, fra il modo positivo con cui Renzi si pone mediaticamente, e la prima fase di governo, che si presenta in continuità con passato: vale a dire tasse sulla casa, tasse sul risparmio. Se uno si pone così, come i governi di Mario Monti ed Enrico Letta, se vivacchia, se si pone cioè nella logica dello zero virgola, alla fine, prevarrà il rattrappimento dell’economia. Quello che Renzi prevedeva di crescita nel Def è già diventato l’0,6% con l’Ocse, lo 0,5% con l’Istat, fino arrivare alla decrescita di questo primo trimestre.

Invece, lei scrive, ci vuole una frustata e propone un taglio di 50 miliardi alle tasse nei primi due anni.
Della quale fornisco puntualmente le coperture…

E anche le clausole di salvaguardia, se è per questo. Ciò non toglie che sia una cifra vertiginosa.
R. È uno shock ragionevole, una cosa che può fare l’Italia, oggi. Se si decide di restare nei limiti delle compatibilità esistenti, si resta nel perimetro del declino. Io, invece, propongo una scelta coraggiosa che propone lo sforamento del limite europeo del 3% ma non per fare più spesa pubblica, anzi, realizzandone tagli decisi. Se noi facessimo un’operazione di questo ordine di grandezza, torneremmo, nel giro di un paio di anni, a una crescita di almeno il 2%.

Lo sforamento del limite europeo andrebbe negoziato?
Si potrebbe provare, ma se ti dicono di no, andrebbe fatto lo stesso. Vorrei vedere Bruxelles, un anno e mezzo dopo, aprire una procedure di infrazione, quando il Paese esponesse cifre di una ripresa.

Un atto politico, di assunzione di responsabilità, insomma.
Si tratta di capire se vogliamo amministrare il nostro declino o vogliamo reagire.

Lei, nel piano di coperture, a questo riduzione monstre dell’imposizione fiscale, prevede di affondare il colpo nelle municipalizzate dalle quali, secondo le stime dell’Istituto Bruno Leoni, si potrebbero ricavare almeno 30 miliardi. Sa che così non si fa amare da molti compagni di partito, vero?

Sì, proponiamo un’azione decisa sulle municipalizzate e una vendita massiccia degli immobili degli enti locali. La prima avrebbe anche il merito di scuotere dalle fondamenta quel “socialismo municipale”, come lo chiama lo stesso Istituto Leoni, che vede l’Associazione nazionale comuni italiani-Anci nel ruolo di Cgil dei municipi. Qualche collega di partito storcerebbe il naso? Pazienza, questa è anche una sfida culturale, rinnovare significa far arretrare lo Stato, non semplicemente trasferirlo da un livello nazionale a un livello territoriale. Ci vuole un cambio di paradigma.

Ma come si può declinare un programma così ambizioso dentro la Forza Italia attuale, che rivela una dialettica da scontro aperto?
Le due cose stanno insieme. Qui c’è da aprire porte e finestre, ragionare di nuove forme di partecipazione dell’elettorato, di congressi, di primarie, ci intenderemo sulle sulle tecnicalità, perché ci sono, su questo punto, mille sfumature. E poi ci vuole il coinvolgimento dei cittadini, anche nella formazione dei programmi.

Capezzone, le credo, però qui siamo allo scontro durissimo e inedito fra il Cavaliere e Raffaele Fitto, che pure lei, nel libro elogia, per la sua performance europea. Siamo a Giovanni Toti che liquida in poche righe Giancarlo Galan, facendo sfoggio di scarsissimo garantismo per il partito delle garanzie. Non mi pare ci sia grande spazio per le idee liberali, in questo momento.
Guardi, non le nascondo nulla. Per un verso sono fra coloro che più hanno contribuito alla ripresa di un filone liberale accanto al presidente Berlusconi, alla campagna elettorale dell’anno scorso, quella della freschezza della battaglia antitasse, dell’Imu, della rimonta…

Si dice infatti che i discorsi di B., negli ultimi due anni, li abbia scritti lei…
Diciamo che ho dato il mio contributo sui contenuti, però, è anche noto, che sono amico di Fitto, che condivido l’accento che lui pone sulla necessità di riportare il partito fra gli elettori.

Dunque sta mediando?
Ma non c’è da mediare! Queste cose non le risolvi col minimo comune multiplo ma con un grande moltiplicatore e quello che lo puoi fare a partire da quello che Berlusconi ha sempre insegnato ma anche da un software liberale.

Insisto però. Lei che ha sempre parlato di “giustizia giusta”, che effetto le ha fatto Toti che processa Galan?
Non mi faccia fare il commentatore delle dichiarazioni altrui. Testardamente insisto sulla centralità approccio e dei contenuti: secondo me Forza Italia ora deve parlar di tagliare l’Iva, di ridurre l’Irap, di tasse di recuperare quel voto che s’è messo in attesa di capire cosa facciamo.

Lei, in questo suo libro, riscrive dei concetti che fanno vibrare gli animi liberali, lei parla di liberalizzazioni, di voucher, di tagli alle tasse e alla spesa. Ma siamo a vent’anni esatti dalla “rivoluzione liberale” fallita del 1994. Perché gli Italiani dovrebbero darvi credito ancora?
Perché, due ragioni una piccola e una grande.

Partiamo dalla piccola.
Dopo un anno di legislatura, l’Italia è un po’ liberale, perché un pugno di persone, nella commissione Finanze ha fatto un lavoro durissimo e vincente per creare una delega fiscale che ha introdotto cose prima impensabili, dalla impignorabilità della prima casa, alle compensazione fra tasse e crediti di imposta e molto altro.

E’ vero, lei, presidente della commissione Finanze della Camera, pur essendo rimasto solo con altri tre deputati azzurri, per effetto della scissione alfaniana, ha fatto un gran lavoro di mediazione. Seconda ragione?
La seconda è che resta sempre una questione di fondo per risolvere tutta una serie di problemi. Che sono gli stessi. E cioè che non esiste il danaro pubblico ma, come diceva Margharet Thatcher, il danaro dei contribuenti. Quindi ci vuole, ancora, meno Stato e meno spesa, anche se sono passati vent’anni. E queste cose le possono fare solo dei veri liberali.



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