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Gli spaventapasseri della politica

Tra i tanti termini del vocabolario politico contemporaneo, ce n’è uno che, almeno in Italia, si sente sempre più spesso: deriva. E’ un termine che evoca scenari non esattamente entusiasmanti, anzi di solito indica un rischio, un pericolo, una situazione al limite. Il governo (a prescindere da chi sia l’inquilino di Palazzo Chigi) usa oltre misura – secondo i suoi critici – il ricorso alla fiducia per approvare questo o quel provvedimento? Attenzione, stiamo scivolando verso una deriva autoritaria. Si pensa ad un sistema di volontariato attivo da parte di cittadini che hanno a cuore la sicurezza dei loro quartieri? Attenzione, è in agguato una deriva xenofoba. Si prendono provvedimenti contro l’immigrazione clandestina? Attenzione alle derive razziste. Di esempi se ne potrebbero fare tanti. Per dire che esiste e si sta diffondendo a macchia d’olio nell’opinione pubblica una vera e propria “sindrome della deriva”. Si tratta di un atteggiamento culturale prima ancora che politico, che agitando lo spauracchio della degenerazione, in realtà punta dritto ad un unico obiettivo: non fare nulla, lasciare le cose come stanno, bloccare ogni istanza, ogni iniziativa, ogni tentativo di fare qualcosa. E’ un atteggiamento, si badi bene, trasversale, spesso e volentieri rappresentato da chi è all’opposizione. Non è legato al momento contingente: chi ieri era decisionista oggi si ritrova, per quelle alchimie tipiche della politica nostrana, sulle barricate a parlare della deriva. A rimetterci, naturalmente, sono i cittadini. E questo non è populismo, è la verità. Soprattutto quando alcune istanze vengono dal basso. Ad esempio, anni fa scoppiò la polemica per il caso delle “ronde”. D’accordo, si poteva scegliere un termine migliore, su questo non c’è dubbio. Ma andiamo alla sostanza: il fatto che alcuni cittadini, disarmati, opportunamente selezionati e controllati dalle forze dell’ordine, si organizzino volontariamente per presidiare le strade delle loro città, è o no una buona idea? In altri paesi – vedi gli USA – la cosa funziona, né si hanno notizie di linciaggi, esecuzioni sommarie, giustizia-fai-da-te e via dicendo. Da noi invece, non appena si è cominciato a parlare di “ronde” – ripeto, il termine non è il massimo – la sindrome da deriva è scattata implacabile. Col risultato che alla ronda è stata associata l’immagine di una squadraccia di scalmanati armati di machete, coltelli e spranghe a caccia del cattivo da punire, meglio se rom. Il che è completamente falso. Ora va bene discutere, parlare, confrontarsi, dialogare. Poi però le cose vanno fatte. Perché è di questo che il paese ha bisogno. E pazienza se qualche volta si parla meno e si fa di più. Un governo, di qualunque colore esso sia, è chiamato a governare, cioè a fare delle cose, non a discutere all’infinito cercando l’ennesima mediazione, l’ennesimo compromesso. Parafrasando Leibnitz, la politica lasci la ricerca del migliore dei mondi possibili alle aule universitarie, e si concentri su come realizzare, qui ed ora, il migliore dei mondi fattibili.


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