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Ho scelto la mia traccia alla maturità: il rammendo delle periferie

«Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far manutenzione. Ma sono proprio le periferie la città del futuro, quella dove si concentra l’energia umana e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. C’è bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci vogliono delle idee. […] Le periferie sono la città del futuro, non fotogeniche d’accordo, anzi spesso un deserto o un dormitorio, ma ricche di umanità e quindi il destino delle città sono le periferie. […] Spesso alla parola «periferia» si associa il termine degrado. Mi chiedo: questo vogliamo lasciare in eredità? Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città?»

Ecco appunto. Il titolo fa già l’elaborato. Mentre leggo e lo rileggo, il titolo, scorrono davanti a me le immagini del filmato che ha ripreso Renzo Piano e Francesco Merlo durante la loro visita-conversazione. Si trovavano presso una scuola della periferia di Roma. Di fronte a una piscina svuotata, degradata, lurida e sporca, buona solo per accogliere la fine del metabolismo dei piccioni. Bisogna riscoprire le periferie e rammendarle. Trattarle da stoffe, da tessuti anziché da pezze e strofinacci. Appallottolandole e schiacciando chi ci vive manco fosse una chiazza di pomodoro. Il fatto è che per rammendarle le periferie, senza consumare ulteriore suolo agricolo, senza allungarne l’ombra ancora oltre, ancora più lontano dalla già lontana circonvallazione, senza che i materiali siano ancora più scadenti di quelli utilizzati negli anni 70, usando gli stessi materiali di quegli edifici, le case popolari, che negli 30 seppero conciliare la funzione sociale con l’estetica del bello, ci vogliono un sacco di soldi. Un sacco di soldi che, dato che è chiaro a tutti che il pubblico non li può tirare fuori perché non li ha, se devono tirarli fuori i privati, occorre dimostrargli che ne vale la pena.
Ecco appunto. Il titolo fa già l’elaborato. E il problema dell’urbanizzazione diventa questione politica. Il termine “rammendo” così caro a tutti gli schieramenti, a destra come a sinistra, fatto proprio dal premier Matteo Renzi che vuole ripartire proprio dalla riqualificazione degli edifici scolastici perché, si sa, l’istruzione è come l’acqua e l’elettricità, fa a pugni con quanto fatto dell’urbanistica dalle classi dirigenti di questo paese. Con quanto lasciato fare ai tanti e troppi portatori d’interesse di cui molta parte di questa politica è stata ed è rappresentante e referente. Quella dei palazzinari, dei costruttori, delle banche e delle assicurazioni. Quel groviglio di interessi così sempre poco contendibile e che è sempre lì al suo posto. Il rammendo, certo, è parola assai suggestiva e servono idee. Bisogna guardare avanti e non stare sempre a piangere sul latte versato. E però non si può rammendare senza non rammentare.
E visto che siamo in piena atmosfera mondiali, quelli di calcio in Brasile, non possiamo non rammentare quello che è stato fatto in Italia in occasione dei Mondiali di Italia 90. A dirigere il comitato fu un allora giovanissimo Luca Cordero di Montezemolo. Furono aperti non si sa quanti cantieri. Furono fatti e rifatti non so quanti stadi. Eretti, giustappunto, nelle periferie. Altro che ago e filo, altro che rispetto della asole, allora. A Torino nacque lo stadio delle Alpi, che dopo neanche vent’anni è stato buttato giù per lasciare il posto al nuovo Juventus Stadium con chissà, non lo vogliamo neanche sapere, quali cortocircuiti tra pubblico e privato.
A Bari, il San Nicola. Bellissimo e grandissimo lo stadio San Nicola, nato proprio dalla matita di Renzo Piano, esso rappresenta oggi una cattedrale nel deserto. Il Bari è in serie B, e riempire lo stadio è sempre più difficile. I costi della manutenzione divorerebbero i bilanci anche del più blasonato dei club. Il fatto è che in Italia i club blasonati sono sempre meno. Figuriamoci il Bari calcio.
A Torino, proprio nel cuore della città, non si può non vedere, qualunque sia la periferia da cui si guarda, la Torre San Paolo. Un parallelepipedo di cemento e acciaio. Una torre, nata proprio dalla matita di Renzo Piano, che tutti i profani dell’architettura e dell’urbanistica giudicano poco ben inserita nel contesto urbanistico della città che fu della Mole. Città che è un unicum nel panorama italiano. Città squadrata, regolare, tutta barocca, tutta coerente a sé stessa, con gli edifici che sembrano trasmettere i suoni e gli umori dello spirito sabaudo. Città che, rammento, fu concepita tre secoli fa da Juvarra.

Se solo in ogni città si riscoprissero le identità dei luoghi, delle storie che l’hanno caratterizzata si potrebbero immaginare non uno ma cento progetti. Il termine “policentrismo”, che è altra parola così cara ai progettisti dell’urbanistica, perderebbe di significato perché un unico grande filo, quello della storia e dell’identità, collegherebbe idealmente tutti i quartieri. Per dire a Torino, nelle sue cavità sotterranee che la collegano, tutta, da Collegno a Moncalieri, dalla Gran Madre fino a Corso Giulio Cesare, scorrono acque che un tempo servivano per azionare pompe idrauliche che producevano elettricità. Si potrebbe partire già solo da quello per immaginare una riqualificazione di tanta edilizia strizzando l’occhio a soluzioni innovative dal punto di vista energetico. Ogni città ha i suoi canali sotterranei dove si è nascosta la storia. Bisogna saper grattare. Più che del rammendo, dunque, forse ci vuole l’abilità dello scalpellino. Bisogna mettere in conto che bisognerà mangiare tanta polvere prima di riconoscere un volto dal pieno di una roccia.
Una cosa però è certa. Quella dello scalpellino, così come quella del rammendo e del cucito sono arti dell’attenzione. Il fatto è che in questo paese l’indice sinistro della politica, che doveva controllare la giusta tensione, s’addummisciu. Per troppo tempo. E quella che a molti è parsa cosa di nenti per la manica, che dell’abito è appunto la periferia, ora è grave difetto. Ci vuole concentrazione. E manutenzione, attività purtroppo poco glamour e chic e dove chi offre il servizio, se non ha santi in paradiso, rischia sempre di rimetterci.

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