Per la maggior parte degli osservatori, a dire il vero, l’inflazione non esiste proprio (parliamo di America) e semmai c’è il rischio opposto, quello della deflazione. Da quattro mesi, tuttavia, i prezzi stanno aumentando sempre più velocemente, tanto che siamo ormai a una velocità annualizzata superiore al 2 per cento.
C’è uno scostamento curioso tra l’inflazione percepita dagli economisti e quella percepita dagli analisti azionari di settore e dalle borse. I titoli dei media e delle telecomunicazioni salgono perché gli abbonamenti sono sempre più cari (un pacchetto telefono-internet-cable tv costa ormai quasi 200 dollari al mese e ce l’hanno quasi tutti). Le linee aeree salgono in borsa (tra l’altro) perché le compagnie aumentano il prezzo dei biglietti e svalutano le miglia accumulate. Le assicurazioni sanitarie fanno nuovi massimi perché Obamacare fa costare le polizze il 30 per cento in più.
I gestori di sale cinematografiche salgono perché vedersi un film con la poltrona comoda e uno spuntino costa ormai 40 dollari. I fondi immobiliari salgono perché gli affitti sono sempre più cari, anche se le statistiche ufficiali (compilate chiedendo ai proprietari di casa a quanto la affitterebbero) calcolano a zero il 30 per cento di Cpi dedicato alle spese per l’abitazione. Le università, dal canto loro, non sono quotate, ma non risulta che iscriversi ad Harvard costi meno o uguale rispetto a cinque anni fa.
Non combattere la Fed, non mettersi contro la volontà delle banche centrali è una vecchia massima di borsa che funziona praticamente sempre.
In questi anni, in parte ammiccando e in parte dicendolo chiaramente, le banche centrali hanno suggerito a tutti di comprare in borsa. Chi le ha ascoltate non se ne è pentito.
Oggi tutte le banche centrali dicono che vogliono fortissimamente fare salire l’inflazione, come minimo al 2 per cento, ma per essere sicuri del 2 è meglio che ci sia il 3 e se poi ci sarà il 4 o il 5 stiamo pur tranquilli che nessuno si strapperà i capelli.
Chi compra decennali governativi, anche di dubbia qualità, al 2 o al 3 per cento o ha deciso di combattere la Fed, la Bce e tutte le altre banche centrali, oppure pensa che l’inflazione salirà ma non farà male ai suoi bond (che ci sarà cioè un’intensificazione della repressione finanziaria per cui i rendimenti reali saranno sempre più negativi) oppure ancora ritiene, con un ragionamento non banale, che alla prossima recessione o anche solo al prossimo rallentamento vedremo i tassi ancora più bassi di oggi.
All’inizio degli anni Ottanta tutte le banche centrali hanno deciso di farla finita con l’inflazione. Non hanno avuto necessariamente successo subito, ma alla fine hanno vinto alla grande. Oggi che tutte vogliono invece l’inflazione molti dubitano, così come molti dubitavano trent’anni fa. Man mano gli indici dei prezzi saliranno molti sosterranno che se l’uno non è inflazione, nemmeno lo è il due, il tre, il quattro e così via. Come nota del resto David Rosenberg, l’inflazione è un gas inodore.
Sintetizzando, abbiamo provato a dimostrare che le azioni e i bond sono cari. Attenzione, però. Caro non è un marchio di infamia, non è un semaforo rosso che prescrive di vendere e mettersi al ribasso. È un semaforo giallo che può rimanere sullo stesso colore piuttosto a lungo, anche per anni. Possiamo fare tante cose e guadagnare tanti soldi con il giallo. La differenza con il verde è che dopo il verde viene il giallo, mentre dopo il giallo, tipicamente all’improvviso, viene il crash.
Oppure, come minimo, viene una spiacevole turbolenza che spinge molti a pasticciare, a vendere dopo la discesa e a ricomprare dopo la risalita. Vivere nel giallo con consapevolezza significa allora tenere posizioni non troppo aggressive e comprare ogni tanto un po’ di protezione, specialmente quando
costa pochissimo come adesso.
Oggi tutto sembra calmo e perfetto e forse lo è davvero. Se però a fine anno saremo sotto il 6 per cento di disoccupazione e vicini al 2.5 di inflazione, il dibattito nella Fed (già ripreso in queste ore con un Bullard molto falco) si farà molto più animato e prima o poi innervosirà il mercato. I prossimi due mesi, che immaginiamo solidi e tranquilli, daranno l’opportunità per alleggerire i portafogli molto esposti al rischio o di costruire comunque intorno a loro protezioni efficaci. Si può andare benissimo in alta quota, ma non in T-shirt e scarpe da ginnastica.
Suggeriamo anche di tenere d’occhio l’Iraq. Da quelle parti non si impressionano troppo se una grande città come Mosul cade in una mattina nelle mani di al-Qaeda. Il problema è che al-Qaeda sembra ora dirigersi verso una delle grandi zone di estrazione del greggio. Se pensiamo ai danni (10 dollari sul prezzo del greggio per tutti questi mesi) provocati dai conflitti intestini in Libia possiamo capire che l’Iraq, che produce a regime più del doppio della Libia, potrebbe procurarci qualche problema.