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La leggenda di Alcides Ghiggia, l’unico sopravvissuto del Maracanà

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

L’ultimo sopravvissuto di Maracanà abitava in un modesto monolocale a pianoterra di un quartiere periferico a un’ora di macchina da Montevideo, capitale dell’Uruguay. Volevo incontrarlo non solo per farmi raccontare del gol immortale con cui, a dieci minuti dalla fine della partita, mandò la sua -e nostra- terra in Paradiso e il Brasile nella disperazione in quel lontano 1950. Da italiano-uruguaiano quale sono, desideravo conoscere dall’uruguaiano-italiano Alcides Ghiggia, detto Chicco, anche l’altra metà della leggenda: la sua discesa in campo da questa parte dell’Oceano, quando il campione del mondo giocò nella Roma e nel Milan. E vestì, proprio lui, gloria Celeste, anche i colori Azzurri della nostra Nazionale. E poi il nome, l’unico “Alcide” moderno di cui io abbia sentito parlare dopo De Gasperi. E poi il Peñarol, la mitica squadra uruguaya che plasmò quell’ala destra di altri tempi (proclamata dalla Fifa “la squadra del secolo”) e che è anche la mia squadra del cuore. La sua storia discende da Pinerolo. E così il cerchio italiano e uruguayo delle radici e dei sogni si chiude all’insegna del pallone, il gioco dell’infanzia che rincorriamo per tutta la vita.

Mi dissi che non occorreva un appuntamento per incontrare a Las Piedras uno come Ghiggia in un Paese come il mio Uruguay, dove i rapporti fra la gente ricordano l’Italia gentile e innocente degli anni Cinquanta. Sempre lì si torna, al 1950, all’epopea del 16 luglio nello stadio Maracanà, la finale di Rio de Janeiro. L’uomo che sconvolse generazioni di brasiliani costringendoli, da allora, a cambiare perfino i colori della loro maglia, indossava un maglioncino grigio, jeans e scarpe da ginnastica bianche e azzurre. Piccoletto, con i capelli esageratamente scuri per l’età e i denti un po’ in fuori (e qualcuno d’oro). Un accenno di baffi ordinati e a forma di trapezio ne marcavano l’espressione da siciliano, più che da oriundo torinese, quale era per ramo paterno di nonni. “Maracanà è stato il mio passaporto per l’Italia”, mi disse. E per spiegarmi com’era volato fin dentro l’area avversaria e battuto il povero portiere Barbosa (da quel giorno additato per strada come il colpevole della disfatta carioca dai suoi compatrioti, e allontanato dal calcio), Ghiggia mimò la scena e ripeté il gesto conclusivo col piede. Essendo persona nota e trovandoci su un marciapiede abbastanza affollato, mancava solo l’urlo dei presenti per quel gol rifatto a memoria, cinquant’anni dopo, e accompagnato da parole semplici: “Ho visto un buco nella rete e ho tirato lì”.

Il mito non si dava arie né pretese -come di lui si continua a scrivere sui giornali- un solo euro, anzi, un solo peso per concedermi l’intervista di cui avrei raccontato in uno dei miei libri. L’uomo non se la passava certo bene, come avrebbe meritato un campione dei due mondi: prendeva l’equivalente di duecento euro al mese e guidava una Peugeot 205 rossa e scalcagnata. Ma aveva quel senso di fiera umiltà che è tipico di chi ha fatto una vita di sacrifici. Ci tenne a dirmi d’aver provato “lo stesso orgoglio” nell’indossare la Celeste e nel giocare d’azzurro tra gli Azzurri. “Sono stato anche nove anni nella Roma, dove, arrivato ventiquattrenne, i miei compagni mi chiamavano scherzosamente il neonato. Ho giocato un anno nel Milan, vincendo il campionato. Conservo un ricordo bellissimo della mia esperienza italiana”. “In Italia”, aggiunse, “ho imparato qual è il segreto per campare bene: non farsi cattivo sangue e mangiare spaghetti”.

Con me si vantò d’aver fumato tutta la vita “e di continuare a farlo”. Mi parlò del padre Alfonso, nato in Argentina. Dei cinque nipoti e di Arcadio -altro nome da romanzo alla Gabriel García Márquez-, “uno dei miei due figli che fa il biologo e che ha lavorato dalle parti di Ostia, vicino a Roma”.

Oggi Ghiggia ha ottantasette anni. Da bambino voleva fare l’aviatore. Indomabile nel cielo come in terra, quel giorno di splendore al Maracanà.

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