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La magarìa del sole

Fa caldo e come se fa caldo. Arrifriscu! U suli è forte e picchia duro lui, il grande occhio giallo, da mattina a sera. Abbronza pure le pietre. Forte è il mal di testa di quando prendi troppo sole. L’appetito ti leva. E per contrappasso i brividi di freddo ti corrono dentro all’ossa. E questo caldo, fatto di troppo sole, mi fa tornare la mente all’ancestrale ricordo. Quello di quando, colpito dal sole, scoprii la magarìa del sole.
Il fatto fu di pomeriggio. Dopo una mattinata di sole, di troppo sole. Stetti male. Troppo male di troppo sole. Il parentado si riunì, ricordo allora, come un consiglio di medici. E fu girandola di diagnosi.
– Questo perché tu il cappello non te lo vuoi mettere. Ecco. Chistu è u suli . Stasera andremo da Melina a toglierlo -. – Oppure, l’altra cosa che può essere: una qualche magarìa – . – Ti taliò lungo la via qualche duppia buttana?
In effetti, qui, serve tradurre. Se non altro l’algebra. Perché “duppia buttana” non sta solo per “buttana” due volte. “Duppia” ha significato anche simbolico. E allude all’indole doppia, falsa della presunta dispensatrice di fatture, malocchio e affini.
Con la testa piena di sole, di magarìe, e delle diagnosi dell’improvvisato consesso, te ne stai di lato. All’ombra di tutti. In testa, pezze fresche. Neanche a carte puoi giocare ché ci vorrebbe troppa testa. Anche perché te lo vietano i tuoi cari per i quali lo scopone scientifico è ritenuto sforzo pericolosissimo per le cellule cerebrali. Cose rare, quelle, in famiglia. Attendi così, dunque, che si faccia tardi il pomeriggio per recarti da Melina.
Donna senza tempo e senza età. Dalle speciali facoltà. Buona, perché altrimenti non ne avrebbe potuto disporre. Facoltà, le sue, da amministrare con quella discrezione che le conferiva autorevolezza e sacertà.
Quando l’occhio giallo finalmente scivolò dietro a quello che rimaneva dello stabilimento della Spero, ti venne consentito di entrare nella cucina. La porta di ingresso era rigorosamente protetta da una cassina, tapparella di listarelle di legno tipicamente color mattone. Quelle da cui si guarda senza essere visti. Melina, dopo qualche domanda sui tuoi natali, diede inizio a uno strano rituale. Portò, tenendolo con una mano, un piatto riempito con acqua e olio, sulla tua testa, mentre con l’altra mano compiva alcuni strani gesti che avevano un non so che di sacrale. Le labbra sue , sotto gli occhi socchiusi, andavano avanti e indietro recitando salmi che non potevi sentire.
La cosa andò avanti per un po’. C’era qualcosa di convincente in tutto quello. A Pitagora ed Aristotele è giusto lasciare spiegare come calcolare le distanze e come misurare le forze. A Melina come togliere il Sole. Cosa sarebbe sennò la meccanica celeste?
A un certo punto, il piatto, iniziò la fase di rientro. Tornò dall’orbita che stava percorrendo dentro l’atmosfera posandosi, come un modulo lunare, al centro del tavolo. Dentro al piatto un’unica grossa bolla. Un istante dopo, con i tempi perfetti di una sceneggiatura, i tuoi parenti rimasti fuori rientrarono e tutti insieme in una voce urlarono: – U suli ! -.

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