Pubblichiamo un articolo di AffarInternazionali
Salto qualitativo nella crisi libica. La debolissima transizione democratica rischia di finire, lasciando spazio a una nuova fase gravida di incognite. La crisi è stata innescata dalla campagna militare contro i “terroristi”, iniziata a sorpresa il 16 maggio dall’ex generale Khaled Heftar nel nord-est della Libia.
UNA GRAVE CRISI
Un fatto nuovo che si intreccia con la grave crisi innescata nel Congresso generale nazionale dalle forzature del Partito della Giustizia e dell’Edificazione (i Fratelli Musulmani) e dei suoi alleati. Il motivo? L’elezione come premier di Ahmed Maetig, un tycoon di Misurata che è espressione delle forze e degli ambienti islamisti che prevalgono in quella città.
La tensione nel Congresso con i non islamisti dell’Alleanza delle Forze Nazionali, pur costellata di violenze, non aveva fin qui mandato a picco la transizione. Intraprendendo una vera e propria campagna militare contro gli islamisti, Heftar ha invece rotto il fragile equilibrio stabilitosi nel Congresso.
LA TRANSIZIONE POST-RIVOLUZIONARIA
La transizione post-rivoluzionaria, iniziata in modo promettente, è stata progressivamente gettata nel caos dall’emergere di una ragnatela di conflitti mossi da interessi eterogenei, che i deboli governi di coalizione avvicendatisi al potere non hanno assolutamente la forza di controllare, come del resto non ci riescono neanche gli attori esterni.
Tuttavia, in questa disparata congerie di conflitti (le aspirazioni federaliste della Cirenaica, i conflitti etnici, il jihadismo arroccato a Derna e Bengasi, i contrasti fra le tribù) è possibile individuare un conflitto politico centrale. Secondo la maggioranza degli analisti, questo conflitto sta fra l’aspirazione a un cambiamento rivoluzionario radicale del passato regime di contro a un cambiamento, per così dire, riformista e, talvolta, continuista.
LO SCONTRO
La polarizzazione fra questi due campi è avvenuta, nel maggio 2013, con l’approvazione della legislazione di epurazione delle personalità legate al precedente regime (la così detta legge dell’isolamento politico) che ha escluso dal governo tutte queste personalità, facendo di ogni erba un fascio. Sono stati epurati non solo i personaggi effettivamente corresponsabili nella dittatura di Gheddafi, ma anche quelli che, pur avendo ricoperto incarichi di governo più o meno alti, hanno poi promosso la rivoluzione (liberando dalle carceri quegli stessi islamisti che oggi li interdicono).
Così, molte personalità fra i non islamisti dell’Alleanza delle Forze Nazionali, fra cui lo stesso Mahmoud Jibril – uno dei massimi promotori della rivolta anti-gheddafiana e oggi leader dell’Alleanza – sono stati esclusi dal Congresso e tendenzialmente dalla vita politica del paese.
Di qui la lotta fra l’Alleanza – che punta a mettere un termine a questo Congresso per poi arrivare a riformare la legislazione sull’epurazione – e i Fratelli Musulmani con i loro alleati che vogliono invece allungare la vita di questo Congresso, prendendo di fatto in mano il governo del paese, come infine hanno cercato di fare con la contestatissima elezione del governo Maetig.
L’INTERVENTO DI HEFTAR
L’intervento militare di Heftar, che giura di voler “ripulire la Libia dai Fratelli Musulmani”, modifica i termini del confronto politico, proponendo una chiave di lettura che giustappone islamisti e non islamisti, invece che rivoluzionari e riformisti. Ma la realtà è più complessa e vede i due schieramenti originari raccogliere espressioni politiche molto più variegate.
Sino ad ora, in Libia, diversamente che in Egitto o in altri Paesi arabi, nessuno ha messo in discussione il ruolo della religione, ipotizzando uno scontro tra religiosi e secolari, anche se al vertice dei due gruppi contrapposti ci sono, da un lato, gli islamisti (i Fratelli) e dall’altro i non islamisti (l’Alleanza).
Ovviamente quindi la contrapposizione islamisti non islamisti può essere strumentalizzata per caratterizzare diversamente, in termini di conflitto di civiltà, la contrapposizione fra rivoluzionari e riformisti. Questo sta facendo il generale Heftar, che eguaglia islamisti e terroristi – facendo eco al nuovo presidente egiziano Sisi e al siriano Assad. Ma è una contrapposizione arbitraria e fuorviante che, se non verrà attentamente valutata e gestita, rischierà di essere fonte di gravi errori.
GLI ATTORI ESTERNI
Chi rischia di sbagliare sono soprattutto gli attori esterni, più o meno toccati dalla protratta instabilità libica. Essi dovrebbero rassegnarsi alla constatazione che la loro influenza sul conflitto in corso in Libia è del tutto trascurabile.
Di più, i tentativi di esercitare una influenza dall’esterno sono da evitare in quanto inevitabilmente destinati ad inasprire lo scontro e ad essere impiegati da una parte contro l’altra come accusa di ingerenza dello straniero o collusione con il medesimo.
Infine, e più grave, questi tentativi possono avere l’effetto di rinsaldare pericolosi legami e contiguità, come in particolare quella fra i Fratelli Mussulmani e i jihadisti di Derna e Bengasi. Si è visto subito in questi ultimi giorni che questo è precisamente l’effetto che hanno avuto le sconsiderate dichiarazioni dell’ambasciatore americano, Deborah Jones, e dell’inviato speciale dell’Unione europea, Bernardino Léon. Entrambi hanno fatto cenno alla minaccia dei “terroristi”, usando il linguaggio di Heftar, e li hanno accusati di essere d’ostacolo alla transizione democratica.
Queste dichiarazioni hanno rallegrato Heftar e l’Alleanza, ma hanno anche avvicinato Fratelli e jihadisti, contribuendo a scavare il fossato. Non è neppure escluso che Heftar, una vecchia conoscenza della Cia, sia un emissario vicino o lontano di qualche iniziativa che nasce negli Usa, anche se l’amministrazione di Washington non pare proprio orientata a fare in Libia quello che fa debolissimamente in Siria (ma potrebbe essere un’iniziativa ai margini, come è successo non solo nei film di fantapolitica ma, per esempio, nella vicenda Iran-contras).
LA POSIZIONE DELL’ITALIA
Perciò, che fare? Nell’immediato è forse ancora possibile cercare di promuovere una mediazione. La Lega Araba ha nominato un inviato speciale, che però ha deciso di intervenire solo quando il nuovo governo Maetig sarà formato (il che potrebbe posporre la missione anche indefinitamente).
Una parte che potrebbe dare affidabilità sia agli islamisti sia ai nazional-liberali è la Tunisia, dove forze politiche ugualmente contrapposte hanno trovato un compromesso grazie alla leadership dell’islamista Rachid Ghannouchi. L’Italia e altri europei potrebbero cercare di caldeggiare questo tipo di mediazione. L’Unione europea, invece, schierandosi con le dichiarazioni di Léon, si è messa fuori gioco da sola e quindi non può aspirare a mediare.
Se il conflitto si stabilizzerà e generalizzerà, i Paesi europei e occidentali, compresa l’Italia, difficilmente potranno limitarsi a guardare. Dovranno pensare a prendere una posizione o vi saranno costretti, vale a dire che dovranno considerare un appoggio, non a una transizione democratica più o meno difficoltosa, ma alle parti che più sembreranno in linea con un minimo di principi democratici, la stabilità del Nord Africa e del Sahel e gli interessi nazionali, prima che – come è accaduto in Siria – sia troppo tardi. Non è una questione impellente, ma occorre cominciare a rifletterci.
Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI