IL FATTO. Dal 2007 ad oggi il tema della disoccupazione è stato ospitato nelle vetrine mediatiche più eminenti ed è stato tra le prime voci dell’agenda di tutti i governi europei, ma la climax ascendente della perdita del lavoro sembra non conoscere una fine. Particolarmente menzionata è stata soprattutto la disoccupazione giovanile, messa all’indice e condannata senza appello dal governo di turno in quanto rea di stroncare sin dal principio le aspettative di vita dei nostri figli. Tuttavia l’ottimismo delle conferenze stampa e delle dichiarazioni ufficiali viene puntualmente smentito dall’evidenza statistica. Ieri l’Istat e oggi il centro studi di Confindustria hanno fornito gli esiti delle loro elaborazioni: in Italia la disoccupazione è arrivata al 13,6% in aggregato e al 46% tra i giovani, consegnandoci così il peggior risultato di sempre.
A voler essere precisi con quel “sempre” si intende in realtà solo il breve periodo che va dal 1977, anno in cui l’Istat ha iniziato a studiare l’indice su base trimestrale, ad oggi, ma non crediamo che ciò migliori lo stato d’animo del lettore. A voler essere ancora più puntuali occorre dare anche uno sguardo alla distribuzione territoriale dell’indice e ciò, come da almeno 150 anni a questa parte, conduce alla constatazione che al Sud si vive peggio che al Nord, almeno in termini occupazionali.
L’ANALISI. Le scienze sociali si dividono in due grandi filoni: quelle descrittive e quelle normative, le prime ci dicono che sta piovendo, le seconde provano a spiegare perché ciò succeda. Dallo studio di entrambe capiamo come ripararci.
In Europa, e in particolar modo nei Paesi neolatini, non si può certo dire che il dibattito sul tema non sia avviato o che siamo carenti di informazioni. Quel che manca è una prospettiva politica realmente predisposta alla creazione di posti di lavoro.
L’Europa di Maastricht e Lisbona, quella del libero scambio di persone, merci e capitali, è infatti semplicemente incompatibile con la piena occupazione. I temi liberisti dello Stato minimale, della flessibilità dell’offerta di lavoro (cioè di una contrattazione diretta tra impresa e lavoratore, di figure contrattuali che prevedano il licenziamento facile e della riduzione del costo del lavoro), della concorrenza su scala internazionale, della deregolamentazione dei flussi di capitali e della riduzione del deficit pubblico non solo sono incompatibili con il pieno impiego, ma sono addirittura suoi antagonisti. Considerando che i trattati europei moderni, e dunque le politiche comunitarie che ne discendono, sono totalmente votati ai principi del liberismo economico, il problema della disoccupazione assume un connotato più chiaro. Circoscrivendo inoltre questo scenario generale alla situazione attuale di crisi i numeri dell’Istat assumono un significato ancora più pregnante: l’austerità pubblica e la mano invisibile del mercato non risolvono in nessuna istanza le criticità in cui versano le nostre società
Non sarà dunque né il Jobs Act, né il taglio dell’Irpef per le imprese a creare nuovi posti di lavoro e si badi che a dirlo non sono pericolosi anarchici, ma l’intero filone macroeconomico keynesiano. Il rilancio dell’occupazione necessita di politiche monetarie espansive e di spesa sociale. Ciò richiede tuttavia che lo Stato intervenga nelle faccende economiche e che la Banca Centrale operi da prestatore di ultima istanza, ma lo stato attuale della conformazione europea esclude categoricamente entrambe le cose: lo Stato nazionale non può sforare i termini del 3% tra deficit e Pil e del 60% tra debito e Pil, mentre la Bce non può monetizzare il debito pubblico fornendo liquidità direttamente al Tesoro.
Evocare la riduzione della disoccupazione su scala europea tramite politiche liberiste è un falso storico. Delle due l’una: tertium non datur. Se non altro perché manovre come la delocalizzazione delle imprese, l’abbattimento del costo del lavoro (sia sul lato delle tasse che dei salari) e la perfetta mobilità dei capitali sono strettamente dipendenti dalla disponibilità di manodopera a buon mercato, quella che Marx chiamava “esercito industriale di riserva”.
L’uomo troglodita pregava la pioggia attribuendole in modo superstizioso connotati antropologici, ma non sentiva affatto il problema della disoccupazione. Sarebbe decisamente particolare se dopo cinque millenni ci capitasse non curarci più della prima e di assumere un atteggiamento fatalista nei confronti della seconda.