Pubblichiamo grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, l’analisi di Guido Salerno Aletta uscita sul settimanale Milano Finanza diretto da Pierluigi Magnaschi
Ennesima raccomandazione della Unione Europea, datata 16 giugno: “Considerato l’alto e continuamente crescente livello del debito pubblico e che il termine per correggere il deficit eccessivo era stato spostato al 2015, è di primaria importanza che gli obiettivi del bilancio per il 2014 siano pienamente raggiunti, e che sostanziali sforzi di consolidamento siano perseguiti con decisione nel 2015”.
LA SPESA PUBBLICA
Di queste reprimende sui conti pubblici, in Italia, ne abbiamo accumulate una intera biblioteca. Andiamo avanti: “In particolare, la spesa pubblica dovrà crescere ad un ritmo più lento rispetto all’anno precedente, come programmato dal Governo. Per questo, c’è bisogno di specificare ulteriormente la strategia di riduzione della spesa intensificando la spending rewiew in corso e ridefinendo, laddove sia rilevante, gli scopi della azione del governo. Risparmi misurabili nel breve termine non possono essere conseguiti se non riducendo significativamente l’incremento della spesa per la sicurezza sociale, il cui ammontare arriva a circa la metà della spesa pubblica”. Tutto risuona assolutamente familiare: “Ciò implica la riduzione dei costi sanitari e pensionistici, per esempio individuando più ambiziosi target di spesa e bloccando temporaneamente le pensioni, insieme agli altri benefici sociali”. Solo la conclusione non quadra, dimostrando che il documento non riguarda l’Italia, ma la Francia: “In aggiunta, la programmata legge sulla nuova decentralizzazione dovrebbe ridisegnare i vari livelli amministrativi della Francia per eliminare le sovrapposizioni amministrative, ottenere ulteriori sinergie, guadagni di efficienza e risparmi attraverso la fusione o la soppressione di livelli amministrativi”.
LA RICETTA EUROPEA
Francia o Italia, non fa differenza. L’Europa usa per tutti le medesime ricette: tagliare il deficit, ridurre il welfare, alleggerire l’apparato pubblico. Queste sono le riforme necessarie per uscire dalla crisi. L’importante è che gli Stati dimagriscano: gli sprechi che derivano dalla disfunzionalità dell’assetto istituzionale italiano sono equiparati alla costosa efficienza dell’ammnistrazione francese: l’importante è tagliare. Mentre in Italia sono state sospese le elezioni per le amministrazioni provinciali, delegandone in modo ancora caotico le competenze in attesa della loro formale soppressione con la riforma del Titolo V della Costituzione, in Francia il governo ha deciso invece di ridurre il numero delle Regioni portandole a dieci.
In Italia, invece, si ricentralizzano i poteri legislativi che furono devoluti alle Regioni con la riforma costituzionale del 2001, approvata sempre da un governo guidato dal centrosinistra. Tutto ha un perché: allora, la prospettiva di perdere le imminenti elezioni politiche suggeriva di rendere meno forte il futuro governo di centrodestra, rendendo pressochè ingovernabile il sisema istituzionale; oggi, invece, con la prospettiva di vincerle, il centrosinistra tende a rafforzare i poteri del suo futuro governo nazionale monocolore. Anche il nuovo Senato delle Autonomie è ispirato dalla medesima logica, volta a ridurre duplicazioni e ridondanze: “Il Senato non deve essere eletto, non deve costare perché composto da membri che hanno già un altro incarico pubblico, non deve avere le stesse funzioni della Camera”. Non quali funzioni avrà, ma quali non eserciterà più: le riforme europee vanno scritte per sottrazione.
UNA QUESTIONE DI SOVRANITÀ
L’Unione europea lancia una nuova sfida alla sovranità degli Stati. Dopo aver tolto la sovranità monearia con l’introduzione dell’euro e della Bce, e di recente anche quella sul bilancio con il Fiscal Compact, Bruxelles ambisce ora guidare tutti i processi politici con la scusa di controllare la coerenza quantitativa dei Piani nazionali delle Riforme con gli obiettivi di azzeramento del deficit di bilancio e di riduzione del debito.
L’EURO
Due le ragioni di fondo. Il momento è ancora drammatico per l’Unione: l’implosione dell’euro è stata evitata, come per miracolo, nell’estate del 2011. Ma non è detto che il peso crescente dei debiti pubblici e la bassa crescita dell’intera Europa non ripropongano presto le medesime tensioni, con gli Stati però ormai schiantati da sette anni di crisi. Occorre dunque intervenire con decisione sui deficit e sui debiti, per evitare il peggio.
LE RAGIONI DEI VINCOLI
C’è poi una seconda ragione, esistenziale: l’intero mondo tecnocratico ed industrial-finanziario che gravita intorno a Bruxelles, ed alla stessa storia della costruzione europea, deve rilegittimarsi. Con la crisi, infatti, ha perso ogni credibilità e soprattutto molto potere: ora nasconde le proprie colpe accusando di inefficienza i sistemi politici. Per cinquant’anni, ha lavorato alla creazione di un’entità sovranazionale che ha come obiettivo prevalente la riduzione dei poteri statuali dei singoli Paesi al fine di dare più spazio alle forze del mercato. L’Unione deve evitare la rinazionalizzazione delle politiche, determinata prima dagli aiuti erogati dai singoli Stati ai rispettivi sistemi bancari per salvarli dal default, ed ora dalle correzioni di bilancio necessarie per consolidare le finanze pubbliche. Non può rimanere un’istanza eventuale, che fornisce asratti schemi di comportamento e soccorsi finanziari concreti nei casi d’emergenza.
UN’OCCASIONE PERSA
L’Unione perde così, ancora una volta, l’occasione per armonizzare davvero le regole nazionali: invece che ambire ad una governance comune, ci si rifugia nella “governance europea delle riforme”, quella auspicata da Mario Draghi durante la cerimonia londinese di commemorazione di Tommaso Padoa Schioppa di mercoledì scorso, è cosa del tutto diversa dalla armonizzazione delle normative nazionali. L’Ue assumerebbe il ruolo storiamente svolto dal Fmi nei confronti dei Paesi in difficoltà con i conti esteri: diventerebbe una sorta di curatore fallimentare, un potere estraneo, inviso ed ostile. Una leva che forza la resistenza di alcuni Paesi ad adottare le riforme, senza rendere tutti omogenei. Resterebbero, ed anzi aumenterebbero, le distanze siderali in materia di tassazione delle imprese, così come quelle nella tutela del lavoro. Nell’Unione, i territori nazionali sarebbero soltanto una gabbia delle diversità, nei diritti e nei doveri, da applicare in maniera non disciminatoria a tutti i cittadini europei che volessero risiedervi. Usciremo dalla crisi ancora più frammentati di prima.
DISUGUAGLIANZE
La liberalizzazione delle professioni e dei servizi, quindi, viene imposta in Grecia o in Spagna, e magari in Italia e in Francia, ma solo perché sono Paesi con i conti in disordine. Non varrà mai in Germania, perché ha i conti a posto. Un’Europa, dunque, sempre più à la carte. L’obiettivo dei conti pubblici in ordine, deficit e debito, prevarrebbe così su ogni altro, mentre la competitività si fonda sulla flessibilità del lavoro. La sovranità politica nazionale è pericolosamente in discussione perché non viene sacrificata rispetto ad un comune progetto europeo, in cui tutti i cittadini hanno progressivamente gli stessi diritti e doveri, ma per accrescere le diseguaglianze. Diseguaglianze funzionali all’unica vera uguaglianza, quella tra gli Stati, rappresentata dal pareggio di bilancio.
COSA SUCCEDE IN FRANCIA
In Francia, in questi giorni, l’attenzione è sulle proposte del governo di liberalizzare le attività professioniali, dai tassisti agli avvocati, e sulla ultraflessibilità del lavoro, prendendo ad esempio ciò che accade Oltremanica. Mentre è già stata votata la legge sulla modernizzazione del servizio di taxi, prevedendo la chiamata su base geolocalizzata, gestita per tutti i taxisti che lo richiedano da un servizio pubblico gratuito, è in discussione all’Assemblea nazionale la disciplina del servizio della Uber, che tante proteste ha provocato anche in Ialia. Mentre da noi un tweet da Palazzo Chigi ci ha rassicurato che se ne parlerà la prossima settimana, a Parigi stanno decidendo di applicare le regole che vigono già per il noleggio con conducente: la vettura, alla fine di ogni servizio, deve tornare in autorimessa. Niente corse prese al volo, per la strada: quelle rimangono il privilegio del servizio taxi. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, si commenano con orrore i “contratti a zero ore” tanto in voga in Gran Bretagna, visto che se ne avvarrebbero un po’ tutti, dalle catene di fast food alla gestione turistica di Buckingam Palace. A seconda delle fonti, sarebbero tra 600 mila ed un milione e mezzo i lavoratori di ogni età che hanno un regolare contratto che però non prevede nè un numero minimo di ore di lavoro, né un salario certo, fermo il divieto di stipulare contratti con altri datori di lavoro. Dalla disoccupazione di lungo periodo si passa alla preoccupazione permanente.
LA RESA DEI CONTI
Se Roma piange, ora neppure Parigi ride: se impose beffardamente il Fiscal Compact all’Italia all’epoca dell’accoppiata Sarkozy-Merkel, ora sta provando che cosa significhi la pressione della Unione sulla sovranità. Gli aiuti alle banche sono acqua passata, per tutti: la Francia ha erogato 85 miliardi di euro, la oculata e virtuosa Germania l’astronomica cifra di 418 miliardi, l’Inghilterra addirittura 1.090 miliardi. L’Italia sta soffrendo più di tutti, chissà, forse perché non ha regalato denari alle sue banche.
Ora che la crisi è finita e siamo alla resa dei conti: pagano i cittadini: nessuna flessibilità per i bilanci pubblici, ma ultraflessibilità per i lavoratori. Non è forse questa, l’Europa delle banche?