Diceva John Maynard Keynes che “difficile non è credere nelle nuove idee, ma abbandonare le vecchie”. La citazione si attaglia bene a un concetto base della politica e della teoria economica dominante: l’idea che l’economia sia governata da una sequenza di fasi espansive e recessive che possono essere controllate con le armi della moneta e della fiscalità.
Quando il premier Matteo Renzi, Francois Hollande o Mariano Rajoy chiedono all’Europa maggiore flessibilità di bilancio, probabilmente hanno in mente questo schema. Dopo sette anni di Grande Crisi, nei quali l’economia globale ha continuato a boccheggiare a dispetto dei fiumi di liquidità immessi nel suo sistema circolatorio, l’approccio dominante comincia però a scricchiolare. Due settimane fa l’idea del business economic cycle, il ciclo economico reale, è stata oggetto di un attacco frontale da una delle istituzioni più interessanti e per certi aspetti misteriose del panorama finanziario internazionale: la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea.
Nata nel 1930 da una intuizione di Sigmund Warburg per risolvere il problema delle riparazioni di guerra della Germania, la Bri, che è una sorta di banca centrale delle banche centrali, ha fatto della riservatezza una religione e della sua assemblea annuale un appuntamento con analisi spesso controverse sullo stato di salute della economia globale. L’ultima non fa eccezione. Secondo la Bri le autorità di politica economica sono affezionate all’idea del ciclo economico reale anche perché si muovono in un’ottica di breve termine condizionata dalle scadenze extraeconomiche dei governi e della politica tout court. Peccato che i cicli economici reali, che in genere durano da uno a otto anni (la coincidenza con il doppio mandato della presidenza USA è un caso?) non guidino più le variabili fondamentali dell’economia.
La tesi dei tecnici di Basilea è che la globalizzazione e l’abnorme espansione dei mercati finanziari hanno portato alla ribalta i cicli finanziari, di durata variabile da 15 a 20 anni e di natura completamente diversa. Da questo punto di vista la Grande Crisi segna uno spartiacque tra un prima e un dopo in termini intellettuali oltre che economici e cercare di uscirne indossando le lenti della vecchia politica economica orientata al breve termine sarebbe un errore. I cicli finanziari sono caratterizzati da fasi di boom (ascesa dei prezzi delle attività finanziarie e immobiliari, impennata del credito bancario) e di successivo bust (crollo degli stessi indici). Nelle prime si ha una crescita economica drogata dal debito e dalla “polverina magica di una illusoria ricchezza”. Nelle seconde le perdite in termini di prodotto possono essere “devastanti e durature”.
Oggi l’economia globale, seppure con diversi gradi da paese a paese, si muove dentro uno di questi lunghi cicli finanziari. In particolare sta ancora facendo i conti con le conseguenze della recessione avviata dal crollo dei mercati USA nel 2007 (crollo che seguiva a sua volta un boom di svariati anni): “alta disoccupazione nonostante una certa ripresa, sconnessione tra andamenti azionari e debolezza degli investimenti, dipendenza dei mercati dalle banche centrali, aumento del debito pubblico e privato, riduzione dei margini di manovra delle politiche economiche”. L’analisi della Bri, che in gran parte è frutto del lavoro del suo capoeconomista, l’italiano Claudio Borio, è per certi versi un unicum nel panorama del discorso sulla crisi. Essa da una parte non è assimilabile a un approccio puramente orientato all’austerità, dall’altra si muove lungo una traiettoria ben diversa dal pessimismo storico di Thomas Piketty o dalle idee di stagnazione secolare di Lawrence Summers o di Robert Gordon.
La questione della scarsa crescita della produttività, per esempio, non è considerata ineludibile ma può essere affrontata con politiche dal lato dell’offerta. Se diversa dai teorici della secular stagnation è la visione, diversa è anche la terapia proposta per combattere la Grande Crisi. E qui la Bri lancia un doppio messaggio, per i paesi anglosassoni (USA e UK) e per chi vorrebbe imitarne l’esempio nell’Eurozona. Primo messaggio: le politiche monetarie e fiscali aggressive impiegate per evitare una replica dell’esperienza degli Anni Trenta si sono rivelate alla lunga una “medicina illusoria”. Secondo messaggio: per curare la recessione patrimoniale “occorre affidarsi meno ai tradizionali stimoli della domanda aggregata e puntare di più sul risanamento dei bilanci bancari e le riforme strutturali”. Quanto alla politica monetaria, sovracaricata nel tempo di oneri impropri, occorre accelerarne il rientro nell’alveo della normalità. Ma soprattutto è necessario superare “l’incapacità collettiva di venire a patti con il ciclo finanziario e abbandonare l’idea che il debito pubblico e privato possa essere il principale traino della crescita”.
Se non si fa tutto questo, e non si fa presto, il rischio è che “l’economia mondiale si avvii lungo un sentiero insostenibile e che l’apertura del commercio internazionale e l’ordine finanziario che conosciamo oggi corra seri pericoli”. Del resto i sofisticati indicatori di “allerta precoce” di crisi bancaria costruiti negli uffici di Basilea segnalano cattivo tempo per alcune aree ancora in fase di boom come l’Asia e in particolare la Cina, mentre il debito totale pubblico e privato ha raggiunto nelle economie avanzate il 270 per cento del Pil.
La crisi insomma è ancora in piedi e il barometro segna il rischio di una nuova burrasca.