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Alfano e i centristi a vocazione minoritaria

L’appello di Berlusconi al fronte composito del centro destra per studiare assieme su quali basi programmatiche e con quali modalità confederative fronteggiare e superare, in libera competizione (e non con manovrette di palazzo) la sinistra corporativa di Renzi, è un documento politico, non una mozione degli affetti.

E merita un’attenzione che, purtroppo, l’assemblea del Ncd non ha saputo cogliere, scendendo persino a forme d’infantilismo politico davvero sconcertanti: come il contrapporre «oltre 100 mila adesioni, 10 mila circoli e 1 milione 200 mila voti alle recenti elezioni europee», cifre che invero, confrontate con quelle ottenute da Forza Italia sotto l’incubo di un ulteriore colpo di mannaia giudiziaria, rendono plasticamente l’enorme divario intercorrente tra i due maggiori raggruppamenti centristi e moderati e, quindi, il velleitario disegno di fare, del Ncd, la piattaforma sulla quale cercare di sottrarre elettori ad un berlusconismo ora più forte e propositivo rispetto anche soltanto a dieci giorni fa.

Non direi che l’assemblea del partito di Alfano abbia totalmente glissato la mano tesa di Berlusconi. Certo non l’ha accolta con calore e neppure con il buonsenso che ci si aspettava. Se la prospettiva di medio e lungo periodo che si offre all’elettorato centrista è quella dell’alternativa alla sinistra – e non può che essere questa in un sistema bipolare o tripolare -, onestamente si deve anche riconoscere che la via lunga (anzi lunghissima) indicata da Alfano – anche a prescindere dal passaggio implicito di un salto generazionale – è a babbo morto e schiva il presente. Diversa, anzi diversissima, la reazione dell’Udc; diversa, anzi diversissima, quella di Quagliariello, apoditticamente così sintetizzata: «Se qualcuno pensa che io abbia intenzione di andare dall’altra parte, a sinistra, per quel che mi riguarda è più facile che mi faccia prete», lui ch’è valido campione di laicità.

Proprio le imminenti scadenze elettorali regionali (per non parlare di elezioni anticipate, di cui non mancano segnali) inducono ad escludere che l’ancora troppo frastornato mondo dei moderati possa procedere facendo propria l’antica teoria (proporzionalista) dei «due forni» di andreottiana memoria, peraltro già adottata nella consultazione amministrativa di maggio e per la quale l’ambivalenza (e, in sostanza, l’ambiguità) ha fatto perdere parecchi voti ed escluso i centristi dai ballottaggi in importanti città, conquistate dai grillini. Evito deliberatamente di fare nomi proprio perché, quelle realtà, le conosco molto bene e ho visto, mese per mese, come e quanto la supponenza disgustasse l’elettorato di riferimento e lo allontanasse dal secondo turno.

Il punto da cui partire non è di tipo sindacalistico (minacciare sfracelli, se non vengono accolte alcune condizioni, in verità da tempo discusse lealmente), bensì politico. Oggi la politica dei «due forni» è perdente perché squalificante e nemmeno autonomistica. A meno che non si ritenga – ma ciò sarebbe in netta contraddizione con l’idea di proporsi come alternativi alla sinistra – che i centristi abbiano una vocazione minoritaria: che è una caratteristica delle formazioni testimoniali, non di quelle che sono, e appaiono, alternative alla sinistra, anche se renziana, anche se generosa (ma per quanto tempo ancora?) in termini di poltrone.


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