Skip to main content

C’eravamo tanto amati

Questo commento è stato pubblicato sulla Gazzetta di Parma

Se la posta in gioco non fosse importante – dare una nuova legge elettorale all’Italia -, l’ultimo siparietto tra Matteo Renzi e Beppe Grillo per interposti parlamentari sarebbe perfino divertente. Il primo entra in scena e non la beve, cioè non si fida dell’improvviso e imprevisto abbraccio dei Cinque Stelle sulle riforme. E perciò pretende, come il notaio, risposte scritte dai suoi interlocutori. Gli dicano su quali e quanti punti concordano: altrimenti, che s’incontrano a fare? Ma anche i grillini giocano d’abilità sul palco, non volendo perdere la faccia né la partita con l’astuto presidente del Consiglio e leader del Pd. Noi non ci alziamo dal tavolo, fa sapere il pentastellato Luigi Di Maio, restituendo al mittente l’accusa di avere poche idee e confuse. Ed ecco che compare Grillo in persona e fa saltare tutto (non solo il già saltato incontro fra Pd e Stellati): “Una dittatura di sbruffoni”. Tiè, Renzi e Pd, la festa è finita. Siamo al “c’eravamo tanto amati”. Tutto scoppia ancor prima di sbocciare. Con colpo di scena e ripensamento finale: ma sì, dialoghiamo ancora, concede il Beppe un po’ meno furioso.

Succede, perché non è un mistero che la politica sia in subbuglio sulla grande riforma. Oltre al meccanismo elettorale su cui s’è consumata la baruffa, è il futuro del Senato che spacca in modo trasversale dal Pd a Forza Italia, provocando dissensi in tutti i partiti. E’ l’altra contrapposizione, e ben più profonda, che vede da un lato Renzi con la sua ansia del “qui si rinnova l’Italia o si muore”. Dall’altro lato un fronte composto sia dai conservatori gelosi di un ordinamento antiquato e spento -il bicameralismo perfetto nell’era supersonica e universale di internet-, sia da quanti vorrebbero, invece, cambiare sul serio le cose. Ma non col testo né coi modi spicci, da prendere o lasciare, suggeriti dal Rottamatore e dal suo governo.

E’ una brutta contrapposizione, perché c’è del vero in entrambi i campi. Spalleggiato dall’appello del Quirinale contro l’”inconcludenza”, Renzi fa bene a non mollare, come insegna la trentennale e fallimentare esperienza di chi, discutendo sempre e decidendo mai, ha perso tutti i treni che passavano per rinnovare l’Italia di stazione Bicamerale in Bicamerale. E così oggi siamo al capolinea.
Ma è altrettanto difficile sostenere che possa essere buona riforma quella che trasformerà il Senato in un dopolavoro gratuito per consiglieri regionali trombati e ripescati. Il tutto accompagnato da una legge elettorale che, per carità di patria, nessuno osi sottoporre al giudizio della Corte Costituzionale, bastando il parere di una matricola di giurisprudenza per esprimerne il misurato orrore.

Come spesso succede quando si mettono insieme interessi troppo diversi fra loro, il compromesso tra il fare e il disfare è peggiore del male che si vuol curare. In fondo basterebbe una riga per cambiare, evitando pasticci: “E’ abolito il Senato della Repubblica”. Così come non occorrerebbe un trattato di politologia per una legge elettorale decente. A meno che le parti in causa vogliano andare allo scontro in omaggio alla cinica saggezza: tutto cambi, affinché nulla cambi, e chi s’è visto, s’è visto. Con il solito arrivederci alle prossime elezioni.

CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter