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Dobbiamo assuefarci a una decrescita felice?

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Edoardo Narduzzi apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

C’è una domanda, nel dibattito in corso su come far ripartire lo sviluppo, che mai viene presa in considerazione. Forse, perché troppo destabilizzante per un paese che ha il 140% di debito pubblico sul pil e una disoccupazione a doppia cifra. Forse, perché si preferisce depistare l’attenzione con richiami alla flessibilità, invece di provare a ragionare su quale sia effettivamente, nel contesto globale e data la struttura produttiva italiana, l’effettivo potenziale di crescita annua dell’economia. La domanda che dovremmo farci, al settimo anno di un ciclo economico recessivo che ha fatto sparire circa il 10% del pil e con un secondo trimestre che si annuncia ancora in territorio negativo, è semplice: e se l’Italia fosse condannata ad una traiettoria di crescita dello 0 virgola annuo ancora per un decennio e forse per sempre (intendendo per sempre l’indeterminabile concetto di lungo periodo, ndr)?

LA RIVOLUZIONE MANCATA

L’aver rinviato le riforme per troppi anni, proprio quando l’euro e il mercato unico europeo si facevano realtà mercantile e mentre il commercio internazionale aboliva dazi e barriere varie, potrebbe aver collocato l’Italia su una traiettoria di non crescita. Incapace, forse impossibilitata per le mancate riforme fatte, di aumentare la produttività dei suoi fattori, l’Italia ha completamente perso la rivoluzione tecnologica e organizzativa che ha investito le organizzazioni produttive nell’ultimo ventennio. È rimasta intrappolata nel suo paradigma degli anni del secondo dopoguerra, quello della facile espansione del pil, pensando che fosse un modello di sviluppo sostenibile anche nel contesto globale rivoluzionato. Così si illude di potersi trascinare dietro, senza adottare riforme altrettanto rivoluzionarie, quanto concertato nel passato.

LA CULTURA DEL DEFICIT PUBBLICO

Ma la demografia cambia e con essa la produttività potenziale; mutano la divisione internazionale del lavoro e gli spazi di manovra per chi ha poca innovazione; evolvono, rapide come mai nella storia, le quote del commercio estero a favore di chi ha un vantaggio di prezzo o di prodotto. E così via. Le nuove frontiere produttive rese possibili dalla tecnologia, ad esempio, rendono necessario ridurre drasticamente il personale della pubblica amministrazione: anche di un milione di dipendenti. Ma questo cambiamento mette in crisi un modello di sviluppo basato sulla cultura del deficit pubblico.

LA CONDANNA DEL PIL

La stessa richiesta italiana di flessibilità all’Europa non è chiara nei suoi fini. In cosa vuole essere investito il delta di deficit pubblico annuo in deroga ai trattati? E come questi investimenti si tradurrebbero in maggiore pil e più occupazione nel contesto aperto nel quale l’Italia opera? Non si dice perché, forse, non si riesce a quantificare seriamente quanta crescita vera ne deriverebbe. E così aumentano i timori su un pil condannato allo 0 virgola.


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