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I centristi non sono un’eredità giacente

Il ceto politico centrista e moderato continua a mostrarsi rissoso e persino velleitario, pur essendo il suo elettorato voglioso di una unità almeno ragionevole, cioè rispettosa di distinguo non sempre comprensibili e sufficientemente motivati. Le distanze fra rappresentanti e rappresentati, anziché ridursi, pare allargarsi: così continuando ad allontanare la prospettiva di una alternativa alla sinistra che si dice costituisca una base comune a tutti i soggetti in campo, di media, piccola o infinitesimale dimensione.

Qualcuno, fra i meno dotati ma anche tra i più riottosi ad affrontare il tema delle modalità di una federazione che garantisca le singole identità ma dia chiara disponibilità ad un coordinamento organizzativo fra i troppi gruppi centristi e moderati, pone chiaramente una questione di mutamento generazionale della leadership. Una questione naturale che, però, viene impostata male e si traduce in una guerra preventiva al grande «vecchio» Berlusconi; ovvero riprende un ritornello di alcuni anni fa – B. faccia un passo indietro, e tutto cambierà in meglio -, in verità rivelatosi portatore di nuove divisioni e di progressivi distacchi di elettorato. Che tende ad evidenziare la differenza profonda – anzitutto culturale – con la sinistra, anche se l’alternativa non l’ha sottratta Renzi ai centristi, ma sono state le divisioni del ceto politico moderato a regalargliela su un piatto d’argento.

Se si votasse oggi, persistendo le divisioni accumulatesi almeno dall’inizio della XVI legislatura e fossilizzatesi anche in sede locale persino favorendo concretamente, in città importanti, l’elezione di sindaci grillini (non essendo i centristi neppure riusciti a piazzarsi fra i soggetti in ballottaggio), certamente l’elettorato moderato, dopo la sentenza assolutoria del 18 luglio, svelerebbe l’esistenza di un panorama politico parecchio diverso da quello delineato soltanto due mesi fa: sul piano amministrativo oltre che su quello europeo.

Dinanzi a questa realtà il ceto politico frantumato aumenta la proprie ambizioni anziché proporsi come potenziale positivo utilizzabile nel breve periodo; non nel lungo, giusto per avere il tempo di ulteriori riequilibri di potere e di rappresentanze nel medesimo campo. Addirittura qualche ambizioso senza numeri si comporta come se il berlusconismo fosse una eredità giacente anche dopo il 18 luglio, e perciò a disposizione degli ultimi arrivati perché supportati da alcuni grandi media. Si rischia, così pensando, di commettere un errore storico: l’elettorato centrista e moderato non può essere considerato come il patrimonio di un de cuius ancora vivente; né Berlusconi si sente proprietario di un bene impalpabile che, però, considera come un popolo che si riconosce nella libertà e non la vede assicurata da mandolinisti del nord, del centro, del sud o delle isole.

La rianimazione dei centristi è urgente, possibile, ma pretende responsabilità da parte di un ceto politico comunque nato nel medesimo alveo, ed in particolare sotto il carisma di Berlusconi. Non è più tempo di capi carismatici? Giustissimo. Ma occorre possedere la stoffa per poterlo sostituire, non sfasciando tutto; l’età non basta. I centristi e i moderati non attendono altri pretendenti al trono o presunti successori a un uomo che mostra agilità mentale e capacità di accantonare i risentimenti più vivi rispetto ad elementi più freschi ma meno esperti, meno propositivi e parecchio più presuntuosi.

L’idea della riconciliazione nazionale per contenere i fallimenti della sinistra corporativa e supponente, è una proposta politica berlusconiana; non abbandonata neppure sotto l’aggressione di ascari della via giudiziaria al potere. Piuttosto i centristi, consapevoli che le proprie rappresentanze politiche da troppo tempo si disaggregano per motivi non propriamente politici e non proprio nobili, chiedono ai ceti politici nati e consolidatisi sotto l’ombrello berlusconiano, di chiarire cosa vogliono, oltre la testa del vecchio capo carismatico abbandonato in un momento di difficoltà. In particolare, dopo le consultazioni del 2013 e del 2014, distruttrici del bipolarismo idealizzato, quale prospettiva ritengono sia praticabile per la Terza Repubblica?

L’Italia non è bipolare, è almeno tripolare e politicamente pluralista: per fortuna della democrazia rappresentativa. E, perciò, necessita di nuove regole, nuove istituzioni, nuovi patti costituzionali fra diversi: per dare finalmente vita ad uno Stato di diritto, non ad uno Stato di prepotenze e di debordazioni costituzionali. Certo le riforme (come la cultura) non danno pane; e anche i centristi e i moderati – la maggioranza reale del paese – chiedono misure economiche atte ad attenuare disoccupazione e dissipazione di beni strumentali, che dipendono da decisioni del potere politico. Ma il primato della politica deve recuperare il suo ruolo orientativo, direttivo, garante del progresso, non limitandosi a fungere da registratore passivo di una progressiva recessione.

L’unità operativa del frantumato mondo del ceto politico centrista mutevole e distratto da esigenze diverse da quelle per cui ha ricevuto voti (oltre tutto in altro clima politico e in liste coordinate da Berlusconi), può essere frutto, certo, di atti volontaristici. Ma soprattutto richiede visioni e strategie d’assieme, non la riserva sicura per il proprio particulare. Che non può, da legittimo, trasformarsi in disfattista.


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