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Il Corriere della Sera e Repubblica si smarcano dal renzismo militante

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’articolo di Tino Oldani apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Davanti al Parlamento europeo di Strasburgo il premier Matteo Renzi ha messo l’accento soprattutto su due parole: orgoglio e coraggio. Di certo gli avrebbe fatto gioco una terza parola: risultati. Ma Renzi non ha potuto proprio usarla, visto che il bilancio dei primi cento giorni del suo governo è a dir poco deludente. A parte gli 80 euro, tante promesse, ma pochi fatti. Tanto che il famoso «crono-programma» delle riforme è stato dilatato da cento a mille giorni. Basteranno?

Perfino i giornaloni che incensavano Renzi come «l’ultima chance», ora cominciano a dubitarne. ItaliaOggi ha già sottolineato la stroncatura che Eugenio Scalfari ha riservato al premier nel sermone di domenica scorsa. Ma Scalfari, a differenza del suo editore Carlo De Benedetti, non è mai stato un supporter di Renzi. Meraviglia di più, invece, il commento negativo che l’editorialista politico di Repubblica, Massimo Giannini, ha riservato alla cosiddetta riforma della giustizia annunciata dal premier e dal ministro competente, Andrea Orlando. Finora, ad ogni annuncio di Renzi, Giannini ne era il sostenitore più convinto, la prima voce del coro. Recano la sua firma decine di editoriali che inneggiavano alle riforme epocali del premier, al cambiamento che ha ridato credibilità alla sinistra. Ma due giorni fa, a sorpresa, ecco l’inversione a U, che difficilmente può essere frutto di una scelta personale.

Abrasivo già nel titolo «Rivoluzione virtuale», Giannini scrive: «Nella giustizia, come nell’economia, è necessario distinguere con rigore i risultati dagli obiettivi. Sarebbe troppo facile ricordare le promesse fatte e tradite. Era il 17 febbraio, e Renzi aveva appena ricevuto l’incarico da Napolitano quando annunciava il suo famoso crono-programma di una riforma al mese: legge elettorale e Senato a febbraio, mercato del lavoro a marzo, pubblica amministrazione ad aprile, fisco a maggio, giustizia e welfare a giugno. Da allora il premier non ha arretrato di un millimetro: ‘La riforma della giustizia si fa a giugno’. L’ha giurato e rigiurato». Più avanti: «Il fatidico 30 giugno è arrivato. Com’era prevedibile la riforma della giustizia non c’è. Ci sono appunto le ‘linee guida’. Le ‘dodici palle’ buttate in campo dal ministro Orlando, come le ha definite lo stesso Renzi, tanto per dare credibilità al progetto. Dove rotoleranno queste ‘palle’ nei prossimi due mesi di discussione, nessuno lo può sapere… Un astuto escamotage per comprare tempo e vendere una merce che non si possiede».

E’ dunque finita la luna di miele? Anche i giornaloni cominciano a rendersi conto che con l’asilo Mariuccia insediato nei posti chiave del governo, con ministri incompetenti come Marianna Madia o «matteo-dipendenti» come Maria Elena Boschi, difficilmente si possono fare riforme credibili anche in Europa? Sono dubbi che ora trovano alimento non solo sulla Repubblica, per mesi house organ del governo Renzi, ma anche sul Corriere della sera. Lo conferma un’analisi di Enrico Marro sui conti pubblici, dove per la prima volta si fa il contropelo al governo, colto in drammatico ritardo sugli obiettivi fissati dallo stesso premier. La spending review? «Mentre il Documento di economia e finanza indica per il 2014 l’obiettivo di tagliare 4,5 miliardi di spesa pubblica», scrive Marro, «il governo ha deciso finora tagli per 3 miliardi e mezzo. Manca quindi all’appello un miliardo». E Cottarelli, parlando alla Camera, ha ammesso che altri tagli non previsti per ora.

Nebbia fitta sui tagli futuri. Cottarelli «dovrebbe suggerire al governo i 17 miliardi di tagli per il 2015 e i 23 miliardi per il 2016, necessari per garantire il mantenimento del bonus di 80 euro e finanziare l’ulteriore taglio del cuneo fiscale: Irap per le imprese ed eventuale estensione del bonus agli incapienti, compresi pensionati e partite Iva. Nessuno ha capito come si potranno fare tagli così grandi senza intaccare il perimetro dello Stato sociale (pensioni, sanità, assistenza)».

Non basta. Anche sulle privatizzazioni i conti non tornano. Il governo Letta aveva fissato un obiettivo di 7-8 miliardi di incassi, pari allo 0,5% del pil. Renzi ha alzato l’asticella allo 0,7% per il periodo 2014-17, circa 11 miliardi l’anno. Una goccia rispetto a 2.100 miliardi di debito pubblico. Ma anche questa goccia sembra evaporare: le privatizzazioni di Poste, Enav, ritenute le più abbordabili, potrebbero fruttare 4-5 miliardi nel primo caso e un miliardo nel secondo. Tuttavia una serie di ritardi sta rendendo impossibile l’arrivo dei soldi entro la fine dell’anno.

Quanto agli immobili da dismettere, «l’obiettivo del governo non pare ambizioso: si tratterebbe di portare in cassa 500 milioni l’anno» scrive Marro. «Ma il piano non è decollato». A cominciare dalla mancata vendita di 385 caserme promessa dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti: un flop, come la vendita della auto blu. «Ci vuole una scossa» commenta Marro sul Corriere della sera. «Il bottino di una quindicina di miliardi da privatizzazioni e spending previsto per il 2014 è lontano. E se non si corre ai ripari, lo spettro della manovra aggiuntiva potrebbe prendere forma».

Come nel ping-pong, l’ipotesi della manovra in autunno rimbalza sulla Repubblica, che dopo avere elogiato per settimane la flessibilità conquistata da Renzi in Europa, ha scoperto che le raccomandazioni del Consiglio Ue di metà giugno sono più severe di quelle emanate appena due settimane prima dalla Commissione, e impongono all’Italia il pareggio strutturale del bilancio già nel 2015. Pareggio che il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan aveva chiesto di posticipare al 2016, evidentemente senza ottenerlo. Archiviata la luna di miele, sembra così avvinarsi anche la fine dei sogni.



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