Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori pubblichiamo l’articolo di Tino Oldani, apparso sul quotidiano Italia Oggi.
Sia come economista che come banchiere, Paolo Savona non è mai stato un tipo accomodante. Quando era un giovane ricercatore, l’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, lo volle in Banca d’Italia come proprio sparring partner intellettuale.
Rispetto alla teorie keynesiane, che allora erano dominanti, Savona era considerato un eretico, poiché seguace del monetarista Milton Friedman, un liberista americano che i keynesiani di casa nostra, gente dalla spesa pubblica facile, vedevano come il fumo negli occhi. Anche Carli era keynesiano, ma da uomo intelligente e di ampie vedute capì che troppo spesa pubblica avrebbe finito con il creare dei problemi seri al bilancio dello Stato. Il che si è puntualmente verificato. Da allora, Savona è rimasto coerente con le proprie idee, mentre molti sedicenti keynesiani si sono esibiti in patetiche capriole culturali per improvvisarsi neo-liberali.
Non solo. Mentre i rivali accademici scoprivano il bello del liberismo, Savona era già un passo avanti e, primo in Italia, studiava quali sarebbero state le conseguenze di un nuovo strumento finanziario, i derivati, che sul finire degli anni Novanta erano balzati alla ribalta nel mondo.
Capì che si trattava di una vera e propria rivoluzione, che avrebbe messo a disposizione del mondo finanziario uno strumento potentissimo: una sorta di moneta elettronica mondiale per compiere transazioni gigantesche e prive di controlli (over the counter), che poteva essere usata, bene o male, ai fini dello sviluppo dell’economia reale e del progresso sociale. «Nulla sarà più come prima», disse allora Savona. E dopo 15 anni i fatti continuano a dargli ragione.
Gliel’hanno data una prima volta nel 2008, quando l’eccesso di speculazioni sui derivati e su titoli simili, per un importo superiore alle riserve valutarie del mondo intero, provocò la grande crisi finanziaria iniziata con il fallimento della Lehman&Brothers. E gli danno ragione ancora adesso, visto che la Banca dei regolamenti internazionali ha appena reso noto che il sistema bancario internazionale, lungi dall’essersi risanato, è tuttora fragile e vulnerabile come e più che nel 2008. I derivati over the counter, come valore nozionale (cioè teorico), hanno infatti raggiunto il massimo storico di 710 mila miliardi dollari, superiore ai 600 mila miliardi di fine 2011. E poiché si prevede che a fine 2014 il valore totale possa ancora crescere, la Bri ne ha dedotto che il rischio di una nuova bolla è tornato, come nel 2008, a livello globale. Con tutte le incognite del caso sui mercati, Italia compresa.
Questo excursus sui meriti scientifici di Paolo Savona è la premessa doverosa ad alcune considerazioni di natura politica, che lo stesso economista ha espresso alcuni giorni fa nel corso di una conferenza organizzata dalla Fondazione Ugo La Malfa.
Chi è che impedisce il cambiamento? si è chiesto l’economista. Che strumenti usano queste forze? Risposta: «Ci vogliono convincere che il sistema funziona terrorizzando le persone. Io ritengo effettivamente che ci sono poteri finanziari globali che, dopo la fine del comunismo, che era la loro paura, hanno ripreso i vecchi vizi antidemocratici, l’accumulazione al vertice della piramide sociale».
Più avanti: «Riescono a sfruttare l’ignoranza dei popoli su materie difficili e terrorizzano. Stiamo attraversando la fase del terrore. La lotta deve cercare di individuare quali siano le forze avversarie. In termini di educare il destinatario dell’istituzione europea è stato fatto tutto: sette premi Nobel hanno detto che l’euro non può funzionare. Ora la domanda da porsi è: chi comanda? C’è scomparso l’avversario (cioè il comunismo; ndr), questo è il problema. L’ipotesi di gestire l’economia moderna a livello di nazioni è scomparso nel dibattito. Manca un disegno su come sono organizzate le società e su quali sono gli scontri».
Accuse dure, che rimandano a un precedente intervento dello stesso Savona («Un’Europa senza euro»): «Oggi abbiamo il paradosso per cui economie che vanno relativamente bene hanno le monete che si deprezzano (Stati Uniti e Giappone), rispetto a quelle in crisi come quelle europee, che vedono invece l’euro apprezzarsi. Un paradosso che è frutto dei difetti di architettura economica dell’Unione europea». Ancora: «Dal 2011 i tentativi di riforma svolti in ambito europeo – dal Fondo salva Stati ai prestiti della Bce – hanno tutti il difetto di imporre le politiche del pareggio di bilancio, che stanno distruggendo consumi, investimenti, welfare, mentre nei Paesi periferici non si è prodotta nessuna riduzione del debito». Anzi, l’Italia ha visto aumentare i proprio debito anche per colpa dei 56 miliardi di euro versati all’Europa per salvare le banche, «subendo un costo senza avere alcun vantaggio».
Quanto al Fiscal compact, per Savona «non ha come obiettivo lo sviluppo, l’occupazione e il maggior reddito, ma solo la stabilità fiscale. Per questo l’Italia deve pensare ad alternative, ad esempio a rafforzare alleanze con la Francia, ma anche con la Cina, gli Usa e la Russia in caso di eurexit. E smettere – con i cattivi insegnamenti, codardia e malafede egoistica – di imporre con la vasellina scelte politiche sbagliate».Savona, oltre che stretto collaboratore di Carli, è stato ministro nel governo di Carlo Azeglio Ciampi, poi banchiere, e fino a poco tempo fa presidente del Fondo interbancario di garanzia. Non si tratta di un pericoloso estremista, ma di uno dei cervelli migliori in Italia. Purtroppo, un cervello inascoltato dai maggiori partiti e dai loro leader, che finora hanno dimostrato di preferire la vasellina al coraggio delle idee.