Flavio Felice – Fabio G. Angelini
“Europa”, 22 luglio 2014
Assumendo la prospettiva liberale e dell’economia sociale di mercato einaudiana e sturziana, le riforme istituzionali esprimono la qualità del rapporto tra governanti e governati e l’idea che la maggioranza politica pro tempore ha dei confini tra autorità e libertà, ne consegue che il livello di «inclusività» (Acemoglu-Robinson) delle nostre istituzioni politiche ed economiche rappresenta un problema tutt’altro che teorico.
Esso, infatti, produce risvolti e implicazioni di non poco conto che, se sottovalutati, possono rappresentare l’allarmante segnale di un sistema politico ed economico incapace di creare prosperità e crescita economica.
Sin qui non pare che il tema delle riforme istituzionali e, soprattutto, quello della tenuta del nostro modello sociale sia stato affrontato ponendo la giusta attenzione al tema dell’inclusività. Cercheremo perciò di seguito di analizzarne le ragioni e gli effetti.
I vincoli europei, che comprimono in modo così rilevante la nostra sovranità, specie nel campo della definizione dei livelli essenziali dei diritti sociali e delle connesse esigenze finanziarie, rappresentano un dato rispetto al quale pare ormai irrealistico pensare di fare qualsivoglia passo indietro; né, a nostro parere, una simile soluzione pare auspicabile.
Senonché, proprio in nome della stabilità finanziaria e della salvaguardia della moneta unica, i governi dei paesi meno virtuosi, tra cui l’Italia, hanno adottato significativi interventi in grado di incidere sulla stabilità macroeconomica e sulla riduzione del peso del settore pubblico con conseguenze anche gravi sulla tenuta del modello sociale, senza però raggiungere significativi risultati sul fronte della crescita economica. Di qui, in molti hanno sostenuto una sorta di imprescindibile trade-off tra crescita e rigore.
L’assenza di risultati incoraggianti, a fronte dell’adozione delle politiche di austerità, a parere di chi scrive, pare imputabile non tanto alla logica del rigore, quanto alla tendenza dei governi che si sono sin qui succeduti ad affrontare il tema delle riforme necessarie a far ripartire l’economia italiana con un approccio eccessivamente ingegneristico, fondato sulla pretesa di applicare ricette preconfezionate, senza preoccuparsi di creare quelle condizioni istituzionali e sociali in grado, da un lato, di stimolare l’innovazione e, dall’altro, di contenere la discrezionalità del potere politico, al fine di ottenere una maggiore credibilità istituzionale.
In altri termini, gli ostacoli alla crescita economica non andrebbero rintracciati banalmente in una presunta incompetenza dei governi precedenti e tanto meno nella logica del rigore, bensì, nelle caratteristiche (mai rimosse) profondamente “estrattive” del nostro sistema istituzionale ed economico che, anche in sede di implementazione delle raccomandazioni delle istituzioni europee ed internazionali, hanno finito per contenerne l’impatto positivo, talvolta, sovvertendone persino le finalità.
Va riconosciuto che il governo Renzi ha impresso un cambio di passo significativo nella politica italiana. Tuttavia, rispetto alla “trappola estrattiva” delle nostre istituzioni non pare che siano stati fatti ancora decisivi passi avanti. Anzi, temiamo che, tanto la riforma della pubblica amministrazione, quanto quella del senato e del Titolo V, siano destinate ad accentuare proprio i caratteri “estrattivi” delle nostre istituzioni, piuttosto che ad invertire la tendenza nel segno dell’inclusione e della liberazione delle energie vive del paese.
La strategia renziana ha senza dubbio portato ottimi frutti sul fronte del consenso. È però sul terreno dell’inclusività delle istituzioni che la nuova classe dirigente, se vorrà davvero cambiare verso all’Italia, dovrà dimostrare di essere diversa rispetto alla precedente.
La ripresa della nostra economia, infatti, non passerà solo attraverso un ricambio generazionale o una diversa strategia comunicativa, per quanto necessari e a lungo auspicati. Nel medio periodo, tali espedienti potrebbero anche portare ad alcuni segnali di ripresa, ma difficilmente essa potrà dimostrarsi sostenibile e duratura.
Ciò che, invece, questa rinnovata classe dirigente dovrà necessariamente dimostrare di possedere, sulla scia della grande tradizione liberale e dell’economia sociale di mercato di Luigi Einaudi e di Luigi Sturzo, è la capacità di abbandonare quelle logiche estrattive che hanno governato il paese per troppi anni e che hanno sin qui permesso a una oligarchia di trarre grandi vantaggi a spese del resto della società.