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Per sbloccare l’Italia e sconfiggere i Nimby non basta solo un decreto

Per la prima volta, in nove anni, i dati dell’Osservatorio registrano un’inversione di tendenza: il numero dei casi “Nimby” censiti nel nostro Rapporto cala di qualche punto percentuale. Una buona notizia? Non esattamente. Questo dato dovrebbe essere senz’altro salutato con ottimismo, ma a condizioni di crescita economica e di rilancio industriale perché sarebbe il segno evidente di una trasformazione in corso. Di tipo sociale, innanzitutto: a testimonianza di un ritrovato patto tra le legittime attenzioni dei cittadini nei confronti del proprio back yard, il proprio habitat, le aspirazioni alla partecipazione ai processi decisionali – come sancito nella Convenzione di Aarhus -, e le necessità infrastrutturali e industriali del Paese.

Sarebbe il segno altrettanto evidente di una rivoluzione in ambito amministrativo: il decremento dei casi Nimby potrebbe significare che si è finalmente avviato il processo di razionalizzazione delle procedure autorizzative, e quindi un reale contrasto ai quei veti che hanno ben poco a che fare, per esempio, con temi quali protezione ambientale e paesaggistica, e molto, purtroppo, con la conservazione dello status quo e la ricerca del consenso politico ed elettorale a breve termine. A discapito del cosiddetto bene comune e dello sviluppo economico e industriale.

La realtà è però, purtroppo, ben diversa. La supposizione più attendibile è invece quella che a determinare segno meno nella rilevazione dei casi contestati, infatti, non sia un cambiamento nella cultura del dialogo, tanto meno lo snellimento delle procedure burocratiche. Banalmente, è probabile che la causa sia da rintracciare nel sensibile e duraturo calo degli investimenti nel nostro Paese.

In Italia, dunque, si contesta meno perché diminuisce nel complesso il numero dei progetti di sviluppo e per la realizzazione di infrastrutture di valenza strategica per l’economia nazionale e locale.
Un’ipotesi interpretativa, la nostra, suffragata da alcuni dati generali macroeconomici pubblicati da istituti nazionali e internazionali. Il CENSIS, nel suo ultimo Rapporto, rileva come gli investimenti diretti in Italia siano diminuiti, nell’arco di 5 anni, dall’inizio della crisi finanziaria globale, del 58%. Un dato cauto, se confrontato con quello rilevato dall’UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development) che parla invece di un calo degli investimenti verso il nostro Paese pari al 70% nell’arco di un solo anno, dal 2011 al 2012.

L’Italia sconta da tempo una crisi di affidabilità e di reputazione che le fanno preferire, agli occhi degli investitori internazionali, altri contesti e altri Paesi. Un impoverimento grave, quello che riscontriamo, delle cui conseguenze a lungo termine forse non si ha ancora piena consapevolezza.

La riduzione dei casi Nimby, a ben guardare, e soprattutto il calo degli investimenti che pare essere alla base del fenomeno, è forse un segnale ancora più allarmante della continua crescita delle contestazioni che abbiamo segnalato di edizione in edizione. L’immagine di un paese dove sempre più prende piede una logica anti-industrialista ha varcato i confini, contribuendo a minare la credibilità del sistema Italia. E un paese che non si prende cura della propria reputazione attrae meno investimenti e si espone maggiormente ai venti avversi della crisi economica.

A giugno, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha inviato una lettera ai Sindaci dei comuni italiani chiedendo loro di segnalare infrastrutture e progetti bloccati da tempo e che potrebbero invece rappresentare un’opportunità di rilancio. Il Decreto, simbolicamente chiamato Sblocca-Italia, ha un doppio valore.

Oltre a quello rappresentato dall’obiettivo esplicito del Decreto – il rilancio dell’economia, la creazione di occasioni per le imprese italiane e di occupazione –, la scelta di rivolgersi direttamente ai Sindaci, coinvolgendoli concretamente nell’elaborazione di un progetto per il Paese, è certamente un segnale positivo, un’occasione per ricucire un rapporto fiduciario, di scambio, di confronto positivo che manca da tempo. Sappiamo bene, infatti, che proprio lo scollamento tra il Governo nazionale e le amministrazioni locali, nell’individuazione di un progetto di crescita per il Paese, è uno dei nodi del fenomeno Nimby così come l’abbiamo visto crescere in Italia.

Ci aspettiamo dunque dallo Sblocca-Italia un segnale forte, ma ancora non sufficiente. Accanto a strumenti amministrativi, mirati, condivisi e chiari, in parallelo andrebbe portato avanti un processo di trasformazione culturale del Paese. Non si tratta banalmente di recuperare un orgoglio per la capacità industriale, per il talento creativo, per l’innovazione tecnologica, per le competenze e i saperi che il nostro Paese possiede, ma forse ha dimenticato di avere. Non si tratta di proporre una rivisitazione nostalgica delle glorie passate; al contrario, è necessario sottolineare quanto quella storia faccia parte del DNA del popolo italiano: un popolo capace di innovare e competere. Immaginiamo uno story telling proposto innanzitutto da operatori di sistema e associazioni industriali.

Singole imprese e start up, Confindustria e media, in primis quelli del servizio pubblico, che vogliano sostenere l’idea di un’Italia diversa. Una grande azione di comunicazione di sistema. Un racconto popolare dell’Italia che ce la fa.

Alessandro Beulcke, presidente Nimby Forum


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