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Senato e PA, perché le due riforme non sono del tutto liberali e popolari

In un qualunque sistema democratico, la riforma delle istituzioni e della pubblica amministrazione esprime la qualità del rapporto tra “governanti e governati” e l’idea che la maggioranza politica pro tempore ha dei confini tra “autorità e libertà”. Di conseguenza, assumendo la prospettiva sturziana e dell’economia sociale di mercato, è possibile trarre alcune considerazioni circa l’attitudine di tali riforme a rendere le istituzioni maggiormente “inclusive”, ovvero, ad accentuarne i caratteri “estrattivi”. Intendiamo così contribuire alla riflessione intorno alla riorganizzazione di un polo riformatore di centro-destra, decisamente caratterizzato dalla matrice popolare e liberale.

Crediamo che il richiamo ad una riforma in senso inclusivo delle istituzioni sia un imperativo morale rispetto al quale i cattolici non possano tirarsi indietro. Proprio su questo terreno, le riforme in parte attuate e in parte annunciate dal Governo Renzi sul fronte della burocrazia e sulla trasformazione del Senato, aprono ampi spazi di analisi sui quali sarebbe auspicabile un alto livello di confronto.

A tal proposito faremo due esempi. Il primo riguarda la dirigenza pubblica ed il secondo la riforma del Senato. Temiamo che la riforma della burocrazia, in parte attuata e in larga parte solo annunciata, finisca per segnare la fine dell’imparzialità della pubblica amministrazione, introducendo meccanismi di affidamento degli incarichi dirigenziali, tali da accentuarne la dipendenza dalla politica a tutti i livelli, a discapito della competenza e minando alle fondamenta un baluardo posto dai padri costituenti a tutela di tutti i cittadini: il principio di legalità, di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione rispetto al potere politico.

Invero, chi impedirebbe all’amministrazione di perseguire l’interesse pubblico in modo parziale, a discapito della minoranza ed a vantaggio della maggioranza? Chi le impedirebbe di avvantaggiare qualcuno, colpendo gli avversari politici o i cittadini che, semplicemente, non si sentono rappresentanti dalla maggioranza pro tempore? Il tutto avviene in un contesto in cui si registra un ridimensionamento delle possibilità di accesso da parte del cittadino alla giustizia amministrativa (vera e propria custode del rapporto tra autorità e libertà). Oltretutto, si giungerebbe al paradosso più volte denunciato da Luigi Sturzo e da Wilhelm Röpke, per cui la corruzione verrebbe combattuta anziché riducendo gli spazi di discrezionalità e di parzialità dell’amministrazione, ampliando i punti di contatto tra politica e amministrazione, ossia, moltiplicando i bacilli del virus della corruzione – a tal proposito rinviamo alle “tre male bestie della democrazia” denunciate da Sturzo: “statalismo, partitocrazia, sperpero del denaro pubblico”.

Il secondo esempio riguarda la riforma del Senato. La prospettata riforma, oltre a non completare il percorso di decentramento politico-amministrativo, appare un arretramento anche sul fronte dell’ammodernamento delle istituzioni democratiche, non superando del tutto il bicameralismo perfetto, creando una sorta di doppione della Conferenza Stato-Regioni e, soprattutto, riportando al livello centrale le competenze concorrenti di cui all’art. 117 della costituzione, in palese contrasto con qualsivoglia principio di sussidiarietà verticale, senza peraltro incidere né sulla burocrazia del Senato, nè sul ridimensionamento degli apparati burocratici regionali, ormai insostenibili doppioni dell’amministrazione ministeriale.

La riforma del Titolo V della Costituzione era certamente imperfetta; tuttavia, alla luce del principio di sussidiarietà verticale, dovremmo procedere verso il completamento della regionalizzazione, accompagnata da un ulteriore ridimensionamento dei compiti del legislatore Statale, in relazione alle cosiddette funzioni essenziali dello Stato a fronte, invece, del rafforzamento delle competenze statali sulle cosiddette materie trasversali quali la “definizione dei livelli essenziali di diritti civili e politici”, la “concorrenza” e il “coordinamento della finanza pubblica”.

Non ci pare, quindi, che i tentativi di riforma sin qui attuati o in discussione, seppur necessari e auspicati, vadano propriamente nella direzione di rendere più inclusive le nostre istituzioni. Ricordiamo che, sturzianamente, è questo l’imperativo morale che spetta al cattolico in sede politica: l’impegno per il bene comune si risolve nella “via istituzionale della carità”.

L’impegno dei cattolici in politica è sin qui risultato carente sul fondamentale tema della dignità umana declinata sul fronte della partecipazione alle istituzioni politiche ed economiche. L’attuale scenario politico e la sfida “inclusiva” lanciata da Papa Francesco impongono ai cattolici italiani d’ispirazione popolare e liberale di rinnovare il loro impegno in politica, portando in dote nell’arena politico-culturale quella visione dei confini tra “autorità e libertà” e di “limite invalicabile del potere politico”, propria della Dottrina sociale della Chiesa e patrimonio della cultura popolare sturziana e dell’economia sociale di mercato. Una prospettiva che si presenta come il più efficace antidoto contro ogni violazione della dignità umana e motore di un autentico sviluppo umano integrale.

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