Abbiamo cercato di tratteggiare, per il semestre italiano di presidenza, alcuni temi da proporre alla discussione o sui quali far avanzare la discussione, là dove essa già è iniziata. Il governo italiano non deve chiedere di cambiare le regole. Deve, però, chiedere di leggerle ed interpretarle con intelligenza.
Vogliamo la regola del 3% ma vogliamo leggerla secondo il suo significato originario. Se non c’è l’1% di crescita e il 2% di inflazione vengono meno le premesse della regola ed i sacrifici necessari per il pareggio di bilancio divengono insostenibili. Uno scostamento ragionevole e limitato dal tetto del 3%, per realizzare investimenti che migliorano la competitività del paese, diventa allora del tutto plausibile. Sostenendo la domanda interna lo scostamento fa alzare il tasso di inflazione, migliorando la competitività fa aumentare in modo sano il Pil.
É meglio se questo scostamento non viene realizzato dagli stati nazionali ma é realizzato dall’Unione con un grande programma di investimenti infrastrutturali. Si eliminano dubbi su possibili travestimenti di spesa corrente e clientelare come spesa di investimento (il ritorno al vecchio modello di sviluppo), si riducono i costi perché i mercati chiederanno ad un debito pubblico europeo tassi inferiori a quelli che pretenderebbero dai singoli stati, si consente un migliore coordinamento degli investimenti, specialmente di quelli destinati a costruire le grandi reti della modernizzazione.
Una formula intermedia può essere quella dei contratti di programma che la Commissione conclude con i singoli governi impegnandosi a concorre al finanziamento di grandi riforme che migliorano la competitività del Paese.
Per il finanziamento é possibile fare ricorso alla emissione di Investment Bonds, dando vita ad un debito comune europeo, e/o riutilizzare le risorse ingenti destinate a meccanismi di stabilizzazione di cui verosimilmente non avremo bisogno nel prevedibile futuro.
La rilettura dei trattati che qui proponiamo è del tutto fedele al loro spirito originario ma li svincola da un sistema di parametri fissi che non posso o diventare oggetto di una adorazione idolatrica. Bisogna interiorizzare le ragioni che stanno alla base dei parametri ed adattarli ad una realtá che cambia. Questo vuol dire che abbiamo bisogno di una politica economica comune europea.
Una politica economica comune deve valutare non solo le quantità ma anche la qualità dei bilanci degli stati membri, deve definire le dimensioni desiderabili del deficit comune europeo e ripartirlo fra i diversi Paesi membri (per esempio dando più flessibilità a chi si impegna a fare le riforme per la crescita), deve progettare l’infrastrutturazione di cui abbiamo bisogno per far crescere la nostra competitività, deve gestire il debito pubblico europeo che accenderemo (se decideremo di fare questo passo) per finanziare questo sviluppo. Per tutto questo c’è bisogno di più legittimazione democratica, c’è bisogno di più Europa politica, c’è bisogno di fare un passo decisivo verso l’unità politica dell’Europa.
Estratto da un’analisi più ampia pubblicata nella newsletter di Fede e scienza