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Vi spiego il vero significato della flessibilità secondo l’Europa

Pubblichiamo un articolo di Affari Internazionali

In occasione dell’avvio del semestre di presidenza italiana dell’Unione europea (Ue), si è continuato a parlare di flessibilità, argomento ampliamente trattato anche all’ultimo vertice europeo che si è così concluso: “Occorre prestare particolare attenzione a riforme strutturali che potenzino la crescita e migliorino la sostenibilità di bilancio, anche attraverso un’adeguata valutazione delle misure di bilancio e delle riforme strutturali, sfruttando al meglio, nel contempo, la flessibilità insita nelle norme esistenti del patto di stabilità e crescita”.

In sintesi, il patto di stabilità e crescita già prevede forme di flessibilità per calibrare il risanamento dei bilanci pubblici, che devono essere sfruttate al meglio per tener conto dell’impatto delle riforme strutturali e del loro impatto sulla crescita economica. Che cosa significa?

IL CASO ITALIANO

Prendiamo l’esempio dell’Italia. Il principale problema è un debito molto elevato, pari al 132,6% del Pil nel 2013. In sei anni il nostro debito pubblico è aumentato di circa 30 punti rispetto al reddito. Secondo le previsioni, nel 2014 salirà al 135,2%.

Se il debito non comincia a ridursi c’è il rischio che diventi insostenibile e che i risparmiatori non siano più disposti ad acquistare titoli di stato, provocando un aumento dei tassi d’interesse e un avvitamento del debito.

Secondo le regole del patto di stabilità, un paese dovrebbe avere un disavanzo pubblico inferiore al 3%. Queste regole dipendono tuttavia dalla crescita potenziale dell’economia. Erano state concepite a cavallo degli anni ‘80 e ‘90, quando la crescita europea si aggirava intorno al 3%. In queste condizioni, un disavanzo del 3% con una crescita economica del 3% e una inflazione del 2% (e dunque una crescita nominale del 5%) garantiva una diminuzione del debito.

Applicando queste ipotesi al caso attuale dell’Italia, che a fine 2013 registrava un debito pari al 133% del Pil, un disavanzo pubblico del 3% comporterebbe un aumento equivalente del debito, che salirebbe al 136%. Questo se il denominatore della frazione, cioè il Pil, non crescesse.

Se invece il prodotto interno lordo crescesse secondo le ipotesi previste inizialmente dal patto di stabilità – ossia del 3% in termini reali e l’inflazione del 2% – il rapporto tra debito e Pil scenderebbe in realtà al 129,5%. Il problema è che nella situazione attuale l’ipotesi di una crescita del 3% all’anno appare irrealistica, almeno per l’Italia.

UNA SCOMMESSA DIFFICILE

Nel periodo 1999-2007, precedente alla crisi, la crescita media annua è stata di circa l’1%. Dal 2008 al 2013 il Pil è invece calato complessivamente del 9% e non è chiaro quale sia la crescita potenziale del paese.

Secondo alcune stime prudenziali, la crescita potenziale sarebbe intorno allo 0,5% all’anno. In questo caso un disavanzo del 3% consentirebbe appena di stabilizzare il debito, non di ridurlo. Peraltro, l’inflazione dovrebbe rimanere inferiore al 2%, almeno per un paese come l’Italia che deve recuperare competitività.

Per ridurre il debito in modo sostenibile, il disavanzo pubblico italiano deve essere ben al di sotto del 3% previsto dal patto di stabilità. Con una crescita tendenziale dello 0,5% e una inflazione all’1,5%, il disavanzo pubblico necessario per ridurre il debito di almeno due punti all’anno non dovrebbe essere superiore all’1%.

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Lorenzo Bini Smaghi è presidente Snam e senior visiting fellow dello IAI.



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